La nuova tragedia, processi a distanza e crimini sotto casa

Affollare l’oblio. L’ordine dall’alto, l’adesione dal basso. La tragedia della postmodernità istruisce il suo stasimo, il suo coro giudicante sotto i timori reverenziali di numi artificiali e sopra il calpestio dei vivi e dei morti, con maschere cadenti che solo a stento riescono a coprire la trasfigurazione di massa. Un cambiamento di volto, di espressione, qualcosa che fa i conti coi nuovi stimoli della meraviglia.

Mentre i ministri giocano a fare i dirigenti di polizia, i politici fingono di fare del bene, mentre fanno sempre più del male, talvolta senza neanche rendersene conto, mentre i giudici fanno sempre meglio, o peggio, la loro parte, la realtà si fa banco di prova per i nuovi gangster, accorpati dentro lobby provvisorie, dentro mafie di passaggio, a maschera, a protezione, a specchietto, in favore delle mafie permanenti. Mentre i pentiti di ultima generazione, che non si sa quanto abbiano preso da quelli della vecchia (ammesso che ci sia una distinzione), più che dei pentiti sembrano dei ciclostili viventi che hanno cambiato genere. Passati dal silenzio e dalla latitanza ai clamori della cronaca e dei riflettori, vivono da star accomodate dentro la migliore delle protezioni, l’inconsistenza. Qualcuno ha acceso una luce sull’oblio ed è arrivato il momento di viverlo fino in fondo, perché di meglio non c’è.

La folla è dentro i processi a distanza, è nei tribunali virtuali, nelle stanze degli interrogatori, nelle confessioni, nelle aule e nella voglia di farsi giustizia. Mai pubblico ministero fu più pubblico di questo, col dito puntato verso il buio e la codardia, ogni volta che se ne presenta l’occasione, di non riuscire a denunciare il crimine commesso sotto casa. Tutti riparati dentro le corti deliberanti, quasi nessuno esposto allo scoperto di una denuncia, di un’azione di coraggio che non sia la nevrosi delle vanità. Volevamo la salvaguardia, la trasparenza, la privacy e altre parole terribili, e invece abbiamo ottenuto soltanto il buio e l’esposizione ai colpi più inquietanti del vivere indifesi, prima di tutto da se stessi.

Intere generazioni sono state sottoposte alla prescrizione dell’esserci a tutti i costi, del partecipare al nulla perché è un dovere supervisionato dagli dèi. Poco a poco è apparso pure comprensibile la ragione di questa partecipazione a suffragio universale, alle attività umane che non si sa bene da quali uomini siano state determinate, alle deliberazioni intorno alle proprie privazioni, ai finti ripari e al cattivo gusto.

Oggi chissà se non sia più nobile sottrarsi, farne a meno, defilarsi nell’ombra dell’attenzione, fuori da quell’oblio dove l’unica regola è identificarsi, cadendo nella trappola dello schedario generale. Il disparte costa sacrifici, talvolta la rinuncia a se stessi, l’esclusione dall’universo (il poeta Sanguineti vi rinunciò), nell’aspro confronto con le gerarchie delle presenze, schiacciati dentro lo stritolamento dei meccanismi pronti a scattare in ogni occasione. Nella sempre più urgente e premurosa necessità di affermarsi credenti e religiosi, sopravvive l’ateismo peggiore, così come nella più totale e incondizionata partecipazione al niente, prospera l’allontanamento dal tutto. Ci crediamo evoluti dentro il ventre delle distinzioni, ma siamo solo nella stessa brutale applicazione dei sacrifici umani.

Nell’Agamennone il guardiano “conosce tutti i segni delle stelle”, pregando dio “che finisca presto questa pena”, conosce le sofferenze e gli irrivelabili misfatti della casa che domina sulle fiamme di Troia, lasciando ai segreti delle sue mura la sepoltura di quello che mai sarà rivelato. L’esercito acheo incendia la città a lungo desiderata e la famiglia del suo re farà i conti con gli inferi. Dopo, uno stasimo di estranei con gli occhi nel buio assegnerà al suo racconto le parti sbagliate. Quello stasimo siamo noi. Nelle tragedie umane non ci sono paradisi. Noi invece, come già intuito da Walter Siti, ne abbiamo sparsi troppi, un po’ qua un po’ là, come le trappole per topi.

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