Reportage dalla Guinea Bissau

di Eliana Petrizzi

Viaggiare per illuminare, portando all’essenziale. Pulire la mente dagli ingombri marcescenti dell’ego, dalle polveri sottili di abitudini e malumori. In luoghi come la Guinea Bissau però, non è esatto parlare di vacanza, ma di esperienza. Sono viaggi stancanti, che fanno la gincana tra difficoltà e imprevisti. Parto con un’amica che condivide con me la stessa idea del viaggio e lo stesso amore per destinazioni scomode.

L’Africa versa in una miseria che, vista da vicino, pare irreversibile; una miseria studiata, necessaria a chi governa e ai Paesi predatori, che qui vengono a fare razzie delle risorse preziose di cui dispone il Continente. Tenuti in uno stato di inferiorità culturale e civile utile a tenerli in sottomissione perpetua, i suoi abitanti si ritrovano in condizioni di vita indietro spesso di circa un secolo rispetto ai Paesi di provenienza di chi arriva qui per visitare una specie di museo antropologico diffuso, dove sperimentare nostalgie sentimentali per culture primitive semi estinte, per una natura di struggente bellezza, anche per una certa quota di squallore e disagi, che diventano di volta in volta pittoreschi solo perché chi li documenta sa bene che tornerà presto in luoghi di gran lunga più confortevoli. Qui la disorganizzazione è estrema, come la corruzione. Ai posti di blocco, disseminati ovunque senza ragioni apparenti, i poliziotti non chiedono i documenti; allungano direttamente la mano per prendere piccole tangenti. Lo straniero s’indigna, il locale sorride.

La Guinea Bissau è uno dei Paesi con il PIL pro-capite più bassi del mondo, e con un indice di sviluppo umano tra i più bassi sulla terra. Più dei due terzi della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. L’economia dipende principalmente dall’esportazione di pesce, anacardi e arachidi. Analfabetismo e indigenza dilagano ovunque, creando una condizione a cui lo sguardo si abitua presto, senza più sorpresa né dolore. La situazione politica è precaria a causa della recente autoproclamazione di due presidenti di fazioni opposte. Dopo diversi anni di crisi economica e instabilità politica, nel 1997 la Guinea Bissau è entrata nel sistema monetario franco CFA, che ha portato il Paese a una relativa stabilità monetaria. La guerra civile che si è verificata nel 1998 e nel 1999 e un colpo di stato militare nel settembre 2003 hanno però nuovamente turbato l’attività economica, lasciando una parte sostanziale delle infrastrutture sociali in completa rovina. Oltre a ciò, dal 2005 i trafficanti di droga con sede in America Latina hanno cominciato a utilizzare la Guinea Bissau, insieme a diverse nazioni vicine dell’Africa occidentale, come punto di trasbordo verso l’Europa per la cocaina, facendone un Paese ad alto rischio di diventare “narco-stato”.

Perché vengo ogni anno in Paesi come questo? Me lo chiedono in molti. Certo, potrei andare nei molti luoghi del mondo dove si vive meglio che in Italia e quando lo faccio, ammetto di sentirmi carente, impreparata, spesso ignorante e incivile: una mosca vissuta al buio di un palmo chiuso. È che bisogna confrontarsi per crescere, ma in ogni dimensione e latitudine, non solo con chi sta meglio. In questi viaggi rivedo innanzitutto il mio senso del tempo che qui, pure lento e vuoto, ignora la noia che mi prende per esempio a casa quando sto più di mezz’ora senza fare niente. Vago e osservo, imparando così che la sostanza del tempo non è nell’agire, ma nel puro esistere aperta al mondo. Scrivendo il mio taccuino di viaggio, riscopro la mia grafia impigrita dalle troppe ore di tastiera. Le parole evadono facilmente dalla griglia dietro cui il foglio a quadretti vuole tenerle, e se ne vanno per vie ascendenti in ogni verso, cadendo e rialzandosi ad ogni pensiero. Il tempo a volte qui passa anche solo a decifrare ciò che ho scritto.

Durante il giorno, se fa troppo caldo, riposiamo al fresco di una camera spartana ma silenziosa e piena di pace. Dalla finestra vedo la strada piena di gente che va senza fretta. Lontano, le palme stanno immobili con la ferma fiducia di montagne. Resto ore a guardare questo calmo movimento di persone e animali, fatto di scarti minimi, di cambiamenti insostanziali, di azioni dilatate, di giudizi sospesi, di parole dileguate. Accolgo ogni cosa con gratitudine, soprattutto l’aspettativa violata: il miglior insegnamento contro la presunzione di ritenere che solo ciò che desideriamo è giusto. Qui turisti non ne arrivano. I viaggiatori sono pochi. I bianchi che incontriamo sono soprattutto operatori umanitari, missionari e medici, come i cinque giovani italiani – quattro ragazze ed un ragazzo – che operano in Senegal, radiosi nell’entusiasmo della loro missione. O come Anita e Michele, una coppia over sessanta che da anni gira il mondo in camper.

I guineani sono un popolo giovane, accogliente e cordiale. Si entra nelle case di chiunque liberamente. Chi è ostile chiede soldi per lasciarci visitare il suo privato, e tutto si sistema. La ragazza che mi chiede una foto al mercato si mette in posa con un’abilità da modella. È felice della sua bellezza sensuale, con l’erotismo dei giovani che da queste parti vivono presto l’amore, con la stessa naturalezza con cui le ciliegie si toccano tra le foglie sui rami. I bimbi nei villaggi rigirano in bocca i lecca lecca con tutta la plastica intorno. Dico alla mia guida che non fa bene, che la carta va tolta. Ma lui dice: “No, lo sanno. È che così dura di più”. Nel minimarket di Bissau, l’unico collutorio in vendita si chiama “AMALFI”.

Torno più volte nello stesso luogo: un tratto di strada disastrata fatto di terra battuta, una terra rossa fine che entra dappertutto. Mi colpiscono soprattutto le donne, che hanno un incedere quieto e fiero, gesti generosi e pratici, e sorrisi sempre. Stanno accovacciate per ore a sbrigare faccende necessarie alla vita, serene e taciturne, mai stanche. Di sera, scende sul paesaggio una luce rosa. Un vento delicato profuma d’erba e d’alto mare. La vita continua ancora un poco per le strade, ma è già tutta un tornare nella quiete di piccole case, tra giovani che ridono, bimbi che brillano, uomini che stanno a vigilare su ciò che gli appartiene.

Rispetto al viaggio in Senegal dell’anno scorso, scatto meno foto; preferisco osservare, tenere dentro. Ci sono cose che non possono essere né fotografate né dipinte e nemmeno scritte. Rifiutando la precarietà di ogni messa a fuoco, di ogni traduzione e di ogni commento, certo non possono essere condivise, ma scendono in profondità dentro chi le ha vissute in prima persona e in solitudine, a fare un distillato che arricchirà poi il senso personale della bellezza, dell’umanità, del sentimento misterioso dell’essere al mondo. Un viaggio è un atto d’amore totale e gratuito verso i luoghi e i popoli che si visitano. Come si ama qualcuno anche per le sue debolezze e per le cose che non ci piacciono, così in un viaggio bisogna stringere un patto di cuore pure con la miseria, con la noia, con l’apparente anonimia di un luogo, se non addirittura con lo squallore e lo sfacelo, a volte persino con la violenza della gente, dettata da chiusure di varia natura. Perché il mondo abitato è in gran parte così, e andare in posti come questo serve se non altro a non illudersi del contrario. E serve pure a tornare dove si è nati con una coscienza differente, con più rispetto per gesti di cura verso cose e persone a cui normalmente non si presta alcuna attenzione; con un sentimento dell’umanità più rotondo e più caldo. In destinazioni come la Guinea, bisognerebbe andare se non altro per questo.

(Le foto all’interno dell’articolo sono scatti effettuati dalla stessa autrice dell’articolo)

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