Oggi è un bel giorno per star bene

di Eliana Petrizzi

Chi prende un treno veloce, ha fretta e pensa solo alla sua meta, dimenticando quella degli altri e tutte le cose lungo il percorso. Gli interregionali attraversano i paesi e si fermano spesso. Io li amo per le molte cose che osservo: per l’anziano uomo che sale senza biglietto, per la signora che fa visita a una parente con un pacco di mozzarelle in mano, per gli indiani stanchi e mansueti che vanno o tornano dalle spiagge. Durante i miei viaggi in giro per il mondo, ho ricordato sempre poco quelli dove tutto è andato bene. Ho invece rimpianto con più nostalgia quelli in cui un accidente mi ha ricordato la nostra affascinante impotenza dinanzi ai progetti della vita. Questi treni, questi viaggi dicono: ‘Lascia la via principale, e vai per sentieri’.

Questa umanissima debolezza di nascondersi, quando ci si ammala o ci capita un accidente, di non dire o di mentire, come se la falla fosse un crimine o un’onta, va combattuta e sconfitta.

Il fatto è che di pietà, compassione e soccorso la natura se ne infischia altamente. A lei interessano i forti, in grado di continuare la marcia in avanti della vita. I deboli sono zavorre di cui liberarsi, e una traccia di questo retaggio in noi è purtroppo rimasta. Lo spiega il fatto che verso un malato o un disabile il nostro atteggiamento istintivo è di allontanarcene, quasi a non esserne contaminati. Bisognerebbe invece diventare quel corpo; diventare soprattutto la perdita di speranza che uccide spesso più della paura di morire. E bisognerebbe pure dimenticare il maltempo all’orizzonte; prendersi il poco di sole che arriva ogni giorno, accorgendosi che esistono momenti di perfezione molto più frequenti di quanto non si creda. Non bisognerebbe dire una parola, non fare alcuna obiezione, ma se si è stati fortunati, si dovrebbe ringraziare per la pienezza di un corpo comunque vivo; per occhi che guardano, passi che vanno e mani che stringono.

Di fatto, prima o poi le prove arrivano per chiunque, secondo un criterio di perfetta democrazia che prescinde da età, sesso, cultura, bontà, cattiveria, ricchezza e povertà. Certo, considerando l’ipocrisia del genere umano e le sottili crudeltà di cui sono capaci soprattutto i commiseratori, è opportuno fare attenzione ai nostri confidenti. Molti incarneranno la frase di François de La Rochefoucald, che dice: ‘Nell’avversità dei nostri migliori amici, troviamo sempre qualcosa che in fondo non ci dispiace’. Troveremo compagni inattesi, ma scopriremo anche in molti di coloro che credevamo vicini una cattiveria pari solo alla loro stupidità. Per il resto, è bene ricordare che nei momenti cruciali della vita si è sempre soli. La prova è un corpo a corpo con noi stessi, separati dagli altri, che pure in buona fede e con tutto l’amore ci stanno accanto. Quando ci capita un malanno o un incidente più o meno grave, la prima domanda idiota che ci si pone è: ‘Perché proprio a me?’ Nessuno si chiede invece: ‘Perché non a me?’ Siamo forse migliori degli altri? Nodo karmico? Crash psicosomatico? Vita malsana? Vita ortoressica? Idiozie: incidenti e malattie sono fatti su cui ha poco senso discutere. Provare ad affrontare a meglio il viaggio è il massimo che si può fare. La prima cosa a cui penso sempre davanti a una malattia o a un incidente, è l’idea di poter perdere l’indipendenza, la lucidità e la forma fisica. Su quest’ultimo frivolo, vanitoso punto penso però: ‘Venti anni per sempre; che bello, ma pure che palle’. Di fatto, giovinezza e salute consistono in uno stato di ignoranza, nella presunzione che tutto ci sia dovuto e che ogni cosa debba andare necessariamente per il meglio. Il corpo, però, è dimora inagibile, vuoto a rendere se si è religiosi, a perdere se si è atei. È pure vero che per cambiare non serve un malanno: i cambiamenti accadono ogni giorno; basterebbe fare un poco d’attenzione per capire che il corpo li accetta più di quanto le nostre paure non ci lascino intendere. Considerando infine che mimare a lungo la giovinezza è come vendere borse false in riva al mare, in questa fragile casa affidataci in comodato d’uso, sarebbe meglio spendere il tempo a curare le stanze, i focolai e gli arredi, che il cemento dei muri fuori, battuti dal vento. Non importa se il problema sia piccolo, grave o gravissimo: la cosa più estenuante è l’altalena tra feroci ottimismi e apotropaiche prefigurazioni del peggio. La media proporzionale quando si è soli è uno stato di stordimento, come se noi fossimo la superficie di un oceano su cui passano poche navi, e molto vento.

Altra cosa che una difficoltà insegna da subito è fare selezione, per lasciare posto solo alle cose e alle persone cui è essenziale dedicarsi. Accade poi che se già prima della notizia o dell’incidente si ringraziava per ogni momento presente, dopo, ogni cosa diventa ineluttabilmente preziosa. A nessuno appartiene il momento prossimo, ma la salute, nella sua cecità ce ne toglie consapevolezza. Un acciacco, un imprevisto o un malanno, al contrario, vengono a ricordarcelo senza tanti giri di parole. Con una sensibilità mai sperimentata prima, l’aria che respiri adesso è immensa, i tuoi polmoni non bastano. Il tuo grazie per la pienezza della vita ti sembra ancora troppo piccolo, per quanto è glorioso quello che ogni giorno ti viene offerto, e che con fiduciosa armonia si prende cura di te. Un fatto è certo: se la malattia è cambiamento, il cambiamento non è mai una malattia. In ogni momento difficile, ho sempre trovato ottimismo e speranza guardando gli altri. Soprattutto nei luoghi molto affollati, il caleidoscopio della varietà umana è un insegnamento stupefacente di misura e di pace. Mi hanno aiutato le persone più brutte e persino le più abiette, e naturalmente tutte quelle migliori di me. La mia vicenda mi è apparsa così ogni volta qualcosa di piccolo, necessaria a suo modo alla completezza del mondo. Ogni cosa esiste, curata e guarita dal puro fatto di esistere; in questo va cercata la misteriosa pienezza del suo valore. Raccogliere e sviluppare il potenziale edificatore del crollo. Sfruttare soprattutto gli effetti benefici di un malanno: ne contiene più di quanti non si possa sospettare. Essere in difficoltà è un po’ come avere un bambino piccolo: possiamo inventare scuse per cose che non desideriamo fare, o per non incontrare persone che non abbiamo mai avuto in fondo nessuna voglia di incontrare. Possiamo dilazionare ragionevolmente i tempi di un impegno, annullare appuntamenti. Ci accorgiamo così che il tempo che prima ci pareva avaro, è in realtà vasto e generoso. Ne abbiamo tanto, per assetti impensati e nuove messe a fuoco. Il tempo adesso serve a noi: non siamo importanti, siamo fondamentali. Il tempo per gli altri arriverà, e ci vuole interi. Deve darci forza questo: che sempre nella vita le cose che ci parevano immense erano solo poco più che grandi.

Quando viene sera, non dovremmo commettere mai il peccato di dire: ‘Adesso non guarderò fuori, lo farò domani’. A quest’ora, due mesi fa era buio. Adesso invece il cielo splende di un nitido stupore siderale. Il giorno resta a lungo accanto alla notte, a raccontarsi di questo vento erboso. Qui e ora fanno pace la terra e il fondo degli oceani, dove nessuna speranza smette di finire.

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