Ritratti di carne. Il corpo nella pittura di Lucian Freud

di Eliana Petrizzi

Il corpo dipinto: tema complesso, delicato, abusato. Il rischio di cadere al riguardo ogni volta in una qualche forma di eccesso o di banalità, è forse tra i più alti nella storia dell’arte.Tra i pittori che hanno fatto del corpo il centro del proprio racconto, senza cadere né nell’eccesso né nel banale, metto tra i miei preferiti senz’altro Lucian Freud. Citando la bella mostra “Bacon, Freud, la Scuola di Londra – Opere della Tate”, in corso ancora fino al 23 febbraio 2020 presso il Chiostro del Bramante a Roma, vale la pena stabilire un raffronto tra la pittura di Freud e quella di Francis Bacon. Con la sua pennellata pastosa e greve, Freud dipinge corpi afflitti da un’incurabile gravità terrestre che pare non prevedere alcun riscatto qui, in questo mondo, e nessuna salvezza postuma. Quelli di Bacon, invece, mettono in scena le convulsioni sorde di un corpo massacrato che non si aggiusterà. Freud preferisce esplorare i momenti in cui il corpo è disteso in uno stato di abbandono che non è riposo ma resa senza lotta che si inabissa sotto il suo stesso peso.

Nessuna indulgenza al tema classico del ritratto che invece – in un modo esistenzialista ed amaro – ancora campeggia nei dipinti di Bacon, dove uomini in macerie siedono al centro di stanze vuote, nella posa in cui i dipinti del Rinascimento stavano al centro di paesaggi evanescenti o, più tardi, di fondi bui. Freud non è interessato a questo genere di ritratto, e non lo interpreta di certo come apertura o penetrazione nell’anima del personaggio. Ciò spiega perché i suoi ritratti, soprattutto quelli eseguiti dalla fine degli anni Cinquanta in poi, raramente cerchino lo sguardo di chi li osserva. Gli occhi stessi dei suoi personaggi dicono ora una noia narcotizzante, ora un vuoto impassibile e chiuso, a indicare il rifiuto della funzione significante e centrale dello sguardo. Sono altre le parti del corpo a rivendicare il centro dell’immagine: ad esempio i genitali, mai come prima di Freud ritratti con tanta spietata naturalità, segno di un’animalità che vive incorrotta nell’uomo, con la stessa potenza dell’inconscio che lo zio di Lucian, Sigmund Freud, anni prima aveva indagato in ambito psicanalitico.

Se l’abito è maschera, la nudità priva il corpo del suo indispensabile travestimento sociale e di ogni schermo psicologico. Sia Bacon che Freud hanno però in comune un aspetto: entrambi non cercano di elaborare un’immagine precisa del corpo, ma lo utilizzano per rivelarne l’intrinseca vulnerabilità. Perché niente come il corpo è dimora inagibile, maceria da cui evacuare, affidamento in comodato d’uso, sede di una paura che convive con noi in ogni istante, metafora del limite e del confine che suggerisce di accettare e amare la fragilità, per farne la nostra casa. In Bacon la carne è ancora viva; il sangue si rapprende in una piaga sempre aperta, memore di certi eccessi espressionisti. In Freud il dramma si spegne, acuendosi però a furia di abbandono e di silenzio. La sua è una pittura che va ben oltre il realismo o la biografia dei soggetti, in cui la pennellata densa e tremula – che contiene nella sua luce più carne della carne viva – trasuda la tensione e lo sconforto di personaggi cui è stata tolta la farsa del quotidiano. Ritratti crudi, in cui il vuoto esistenziale si traduce in una posa distorta.

Il corpo è opulento o emaciato, i genitali sempre brutalmente esibiti. La pesantezza della carne descrive la realtà spossata di uomini e donne che sembrano aver vissuto un’esistenza penosa, sopraffatta dal tedio e dall’impotenza, con una vena di ennui, quel sentimento in bilico tra la noia e l’angoscia, così ben descritto dai simbolisti francesi. Con una disturbante capacità di penetrazione psicologica, Freud ritrae però una nudità di ben altra natura. Più che raccontare una storia, dice infatti una realtà avvilente e tuttavia profondamente sensuale, proprio per queste sue irrimediabili perdizione e fragilità, nell’incapacità di risollevarsi dalla stanchezza di essere al mondo. Perfettamente in linea col sentire contemporaneo: tempo storico votato alla disgregazione; racconto disincantato di ciò che si perde, e di cui poco o nulla resta.

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