La lezione di vita di Pietro Calabrese: ‘L’albero dei mille anni’ e la “vita all’improvviso”

Di Stefano Pignataro

Brutale, diretto, emozionante e, nonostante tutto, un volume intriso di notevoli e molteplici riflessioni e considerazioni degne del miglior giornalista. L’Albero dei mille anni, di Pietro Calabrese, uno dei più importanti giornalisti italiani a cui “Roma si inchina”, come ebbe modo di riferire l’allora primo cittadino Gianni Alemanno,  alla notizia della sua prematura scomparsa tanto da dover meritare l’intitolazione di una strada, uscì pochi giorni dalla sua fine della lunga battaglia contro un male che lo aveva improvvisamente aggredito in una tranquilla mattina di maggio, una di quelle giornate in cui, come ha modo di scrivere lo stesso Calabrese nella lunga introduzione a quello che sarà il suo lungo viaggio contro ma anche “con” la malattia, si progettano e si definiscono intenzioni, sogni, desideri e buoni propositi. Il male, invece, e inesorabilmente e conseguenzialmente, tutto ciò che comporta, ti aggredisce e si stabilisce dentro di te senza un motivo apparentemente valido. Viene e basta e quelle due parole, “addensamento polmonare”, hanno abilità e facoltà di far precipitare la vita.

Uscito il 29 settembre 2010, edito da Rizzoli, pochi giorni dopo il 12 settembre, data della scomparsa del giornalista (dopo un anno e quattro mesi dalla scoperta della malattia, l’Albero dei mille anni è un lucido e toccante racconto di quei mesi trascorsi da Calabrese a lottare e convivere con e contro il suo nuovo “inquilino” come da lui stesso chiamato.

Per L’albero dei mille anni, un’opera destinata a rimanere negli annali dell’illustre memorialistica d’autore, è possibile accostare diverse collocazioni letterarie ed accezioni; il racconto di Calabrese è intimo ma allo stesso tempo molto colloquiale. Le sue riflessioni sono frutto di un continuo dialogo interpersonale che la grande firma del Corriere, Mezzogiorno e Gazzetta dello Sport instaura con le sue paure più remote e con la parte più nascosta della sua anima. Racconto memorialista, diario pubblico, ma anche il termine “romanzo” non farebbe storcere il naso a certa critica letteraria.  Un romanzo in cui Calabrese, unico protagonista solitario, gioca a carte scoperte con quell’infingardo antagonista che, a differenza sua, pur passando dalla disperazione e sconforto alla speranza e viceversa, manifesta apertamente i suoi più remoti stati d’animo. Il Male, invece, “non ride, ma ghigna… E agita le braccia”, quei polipi chiamati dallo scrittore “pipistrelli”, “che lo vogliono morto”.

Se negli ultimi tempi, racconti o opere autobiografiche su periodi delicati della propria esistenza non sono una vera e propria novità nel nostro panorama editoriale, è la prima volta che, con L’Albero dei mille anni l’autore  unisce in un’unica opera un cammino che, passando da descrizioni meticolose e precise (talvolta anche volutamente sgradevoli, ma che hanno il desolante compito di far comprendere la gravità e la difficoltà della battaglia) delle devastazioni subite dal suo corpo in balia di una bestia talvolta più brutta del cancro, come gli effetti collaterali delle cure chemioterapiche, a riflessioni intime sulla caducità dell’inesorabile e sull’inevitabile e fatale scorrere del tempo che gli sarebbe rimasto, rimane una testimonianza unica.

Convivendo con la malattia, Calabrese arriva alla conclusione, per nulla scontata, di godersi il tutto che si ha senza affannarsi alla ricerca del superfluo. Un superfluo che , per chi è immune da pensieri o dalla terribile “spada di Damocle”, può sembrare davvero scontato o addirittura banale. Ma il dover cronicizzare un male non operabile, vale a dire assegnare all’improvviso un tempo di non oltre cinque anni per riorganizzare e rimettersi in gioco sapendo che non esiste più un orizzonte eterno, ha significato per l’autore una piena consapevolezza che, anche se la morte dovesse cancellare la propria identità e la propria memoria, quello che sarà ricordato della propria persona sarà il modo con cui lo stesso malato ha affrontato la malattia. Calabrese, di questo, ne è stato Maestro. In quei lunghi giorni, assistito amorevolmente dalla moglie Barbara e dalla figlia Costanza, volto noto del Tg5, l’autore discorre di ogni singola sensazione che lui prova. La stessa sensazione, però, viene provata non più da un animo analitico, razionale del giornalista con il cuore di un uomo, ma semplicemente ed esclusivamente dall’uomo-giornalista.

La prima parte de L’albero dei mille anni è una fulgida testimonianza salvifica e di speranza, ma un ricco vademecum esistenziale e civile. Con la sua sensibilità l’autore compie un’approfondita analisi non soltanto su se stesso (il primo obiettivo della sua penna), ma soprattutto su quella parte di umanità, i “sani”, che hanno a che fare con persone che non lo sono. Prodigo di ringraziamenti a chi gli è vicino, Calabrese non trascura di segnalare alcune mancanze strettamente tecniche sanitarie o addirittura di tatto di una certa fazione di medici per cui un malato è uguale a un altro e il suo destino si riduce soltanto a un vile processo di tempo affidato alla sorte.

L’autore conversa con il suo pubblico, si interroga in mirabili riflessioni degne della migliore saggistica orientale. Non è un caso che il viaggio termina proprio sotto l’ombra di un grande Baobab, in Africa, un albero che, al contrario, ha la certezza di durare mille anni e che la sua presenza in quel determinato posto non è pura casualità.

A Malindi, il rumore del mare, con le maree che cambiano ogni otto ore, rappresenta un vero toccasana, in alternativa all’asfissiante quotidianità cittadina. Quotidianità che, anche se risolleva e distrae l’autore, non lo distoglie dalla tensione perpetua di quel male destinato a tormentarlo oltre ogni sua forza di volontà e di resistenza. Armando Tanzini, l’amico che lo ospita, tra un racconto e un altro di storie familiari di africani, l’autore prende concretamente coscienza di quello che gli potrebbe capitare. Un minimo contatto con un mondo differente, un nuovo mondo in cui “Loro” lo avrebbero accolto. Un incontro immaginario, ma allo stesso tempo reale e concreto. Una nuova dimensione, quella africana, che si discosta totalmente da quella naturale, affrontata in sessantasei anni di vita che nemmeno il suo amico “Gino”, alter lego letterario creato ad hoc da Calabrese e su cui egli ha trasferito la sua vicenda umana, poteva mai immaginare. L’esperimento di Gino, la cui storia Calabrese raccontava sulle pagine della sua rubrica Moleskine del Corriere della Sera, se da un lato lo ha aiutato ad analizzare la sua condizione con occhi non strettamente coinvolti, dall’altro, oltre alla commozione provata dall’ondata travolgente di affetto da parte dei lettori e a scoprire un’Italia “bella e silenziosa”, ha permesso all’autore di scoprire anche una parte nobile della sua professione.

Un lungo sguardo sul mondo, che, anche se sorretto da una visione evidentemente atea (mirabili le riflessioni sulla costituzione della materia, atomi ed energia rincorsi nei pensieri dell’autore in quelle notti senza tempo e senza spazio e che molto sarebbero piaciute a un Calvino che molto spesso si domandava, sul termine della vita terrena, quale sarebbe stato il luogo finale ed effettivo delle energie positive di un corpo). Il presumibile ateismo di Calabrese, però, non è assoluto. L’autore si lascia andare a preghiere molto sentite, a riflessioni che, anche se non si allontanano da una visione strettamente terrena, abbracciano una raffinatissima spiritualità. Un universo che l’autore ha esplorato in quel poco che gli restava da vivere ma che allo stesso tempo ha vissuto forse con un’intensità lunga come la sua straordinaria vita.

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