I vampiri a Napoli – parte seconda: Algidi ospiti

Inseguendo le volute di un filo nascosto nel cuore di Napoli, nella prima parte di questo excursus abbiamo osservato il sostrato culturale nel cui interno il vampiro e il suo mito hanno trovato una nicchia (non soltanto metaforica) dove collocarsi. Considerato il patrimonio simbolico dei 400 lasciti di sangue custoditi nei santuari cittadini, ci spostiamo alla ricerca del visitatore notturno ritrovando un by-pass significativo nella dimensione letteraria, l’ambito in cui il personaggio si sposta dai suoi lidi d’origine incrociando più volte i percorsi del Grand Tour.

Nel volume Dissertazioni sulle tre magie, l’avvocato saggista Costantino Grimaldi abbozza nella seconda metà del ‘700 una mappa del mistero che nella sua analisi precede di due secoli il celebre saggio di Pauwels e Bergier Il mattino dei Maghi. Già membro della partenopea Accademia degli Investiganti e convinto seguace del metodo scientifico, Grimaldi spazia nel suo trattato dalla stregoneria al vampirismo soffermandosi sull’esistenza del non-morto, la cui attività parassita viene descritta come fenomeno reale col sostegno di esempi e testimonianze dalla dubbia origine. Una credulità certo paradossale per un illuminista, che però nella sua irragionevolezza riflette l’isteria diffusa che tra ‘700 e ‘800 porta a fenomeno di massa la fobia del vampirismo, suffragandone la minaccia con un’enorme mole di documentazioni, rapporti medici e dotte conferme, a cui non si sottrae nemmeno il Dizionario Filosofico di Voltaire.

Dalle remote regioni dell’est più arretrato al centro dell’Europa, il vampiro acquista nel secolo dei lumi una presenza fissa all’interno delle paure dell’uomo moderno, inevitabile, dunque, il suo infiltrarsi nella narrativa stabilendovi i codici di nuovi e ricorrenti cliché dell’incubo.

Ne Il dottor nero del napoletano Daniele Oberto Marrama la cornice caprese in cui si svolge la vicenda fa da controparte mediterranea ai racconti del protagonista, Capitano ‘O Nell, creando così un ponte tra i luminosi approdi campani, i castelli d’Irlanda e l’ombra del vampiro che ha perseguitato la moglie dell’ufficiale portandola alla morte.
La pubblicazione apparsa nel 1904 sulle pagine della “Domenica del Corriere” asseconda l’interesse del pubblico per cronache a sfondo macabro, le stesse che avevano reso popolari le dispense economiche dei Penny Dreadful britannici. È in questa veste che quasi un cinquantennio prima vengono pubblicate le 220 puntate formanti il ciclo di Varney the vampire.

Precursore del più celebre personaggio di Bram Stoker, nobile come il Conte dei Carpazi, altrettanto zannuto e feroce, Varney crea un prototipo di successo che stabilisce dei canoni destinati a fare scuola. Le avventure del personaggio d’appendice si muovono su schemi seriali, tra uccisioni e contagi, fino a raggiungere il proprio climax trasferendo l’azione nelle vie di Napoli, città popolosa e promiscua, perfetto ambiente in cui inscenare l’orrore di un’epidemia di vampirismo.

Con i suoi tratti estremi e carismatici, imparentabili alla pericolosa fascinazione della Guapparia, l’antieroe di Rymer e Preskett Prest si cala nello scenario partenopeo confondendosi con i tanti turisti stranieri che lo percorrono. Qui, la stanchezza dei propri delitti matura in pentimento calamitando il vampiro verso l’altro (e più mortale) mietitore, il Vesuvio. Con un tuffo nella sua bocca infuocata, infatti, Varney chiuderà la propria parabola siglando un magico legame tra l’immaginario fantastico e la metropoli ai piedi del vulcano. Motivo che ritroviamo in forma comica negli anni ’60 con Amelia, la fattucchiera di Carl Barks, sempre intenta a cercare di fondere il primo cent di Paperone nella lava vesuviana, oppure nei fumetti della Bonelli, in cui Varney si aggira nel traffico odierno dei decumani inseguito dal Dampyr balcanico Harlan Draka, in giro per il  mondo a caccia di Maestri della notte e relativi seguaci.

Il sole non basta più a tener lontano da Napoli l’ombra del succhiasangue, ormai adottato da scrittori e fumettisti per annetterlo al pantheon locale pieno di Belle ‘Mbriane e Munacielli. A consolidare il connubio, inoltre, si è andato ad aggiungere di recente un altro punto di contatto la cui natura stavolta non proviene dal terreno dell’invenzione, ma da quello non meno affascinante  della ricerca storica.

Sono note ai più le varie influenze che hanno ispirato Bram Stoker nella costruzione del suo  personaggio più famoso, il Conte Dracula. Se sul versante fantastico lo scrittore irlandese si è rifatto alle tradizioni balcaniche dei vari Wurdalak, Vrikolak e Strigoi, dal mondo reale ha ripreso i tratti carismatici dell’attore britannico Henry Irving (di cui fu collaboratore) e quelli più sinistri del Voivode di Valacchia Vlad Drakul III, meglio conosciuto come Tepes, “l’impalatore”.

Perfetta incarnazione del modello di principe di Macchiavelli, Vlad Tepes ha lasciato un segno nella Storia del quindicesimo secolo per l’accanita difesa del suo regno e, soprattutto per la spietatezza verso i suoi nemici, trucidati in massa con metodi disumani. Per una valutazione del personaggio storico rimandiamo all’approfondito ritratto dedicatogli nel ’76 da Radu Florescu e Raymond Mc Nally, piuttosto, dell’intricata vicenda del regnante ci soffermiamo sulla sua lotta contro l’espandersi dell’impero ottomano, impegno già iniziato dal padre Vlad II e racchiuso nel suo stesso nome. La radice del patronimico Draculea, infatti, deriva dall’appellativo paterno Dracul, dovuto all’appartenenza all’ordine cavalleresco cristiano dell’Ordo Draconis, il cui contrasto al mondo islamico è simboleggiato appunto dall’immagine di un drago. La creatura alata si lega perciò al nobile valacco, morto in battaglia contro le truppe di Maometto II e presumibilmente sepolto a Snagov, anche se del corpo non esistono più dei resti accertati.

Grazie alla vaghezza di questa collocazione un gruppo di ricercatori estoni dell’Università di Tallinn, ha ritenuto possibile, insieme ad altri colleghi italiani, di aver trovato la tomba di Dracula nel chiostro conventuale di Santa Maria la Nova. Il suggestivo collegamento, a primo acchito piuttosto azzardato, si fonda sullo studio del sepolcro del nobile napoletano Matteo Ferrillo, ritenuto consorte della figlia illegittima del voivoda, Maria Balsa.

Le spoglie della donna sarebbero contenute in un sacello decorato con la figura di un dragone a cui si accompagnano iscrizioni in latino, copto e lingue sconosciute, insieme a bassorilievi raffiguranti criptici rimandi al signore rumeno. Questi segni avrebbero indotto gli studiosi a ipotizzare che la donna (la cui esistenza non è del tutto accertata) abbia trovato rifugio in Napoli portandovi in qualche modo il genitore, ufficialmente ucciso dall’esercito turco.

Difficile averne certezza, pure l’impossibilità di trovare conferma alla congettura non toglie fascino alla convivenza di sirene e pipistrelli nei miti cittadini, aspetti favolosi e oscuri di una città meticcia quanto lo stratificarsi delle proprie influenze.

Decapitato e forse dissepolto dai suoi nemici, oppure esule in terra straniera, Dracula si è messo in viaggio per le geografie del mondo fisico e in quelle eteree dell’immaginazione, portando con sé paura e mistero. Fatale che la sagoma del vampiro non finisse col richiamare la presenza di un nemico naturale, moderno figlio della cultura splatter di Dylan Dog più che della sapienza libresca di un Van Helsing.

L’attuale cacciatore di vampiri è un intraprendente partenopeo la cui agenzia pubblicizza i propri servizi tramite il web, garantendo disinfestazione da presenze occulte sotto l’egida di un nome degno di un serial televisivo.
Sull’effettiva esistenza ed efficacia di questo ghostbuster nostrano resta aperto il dubbio, come è incerto il domicilio del voivode rumeno tra i monumenti del centro storico. Di sicuro Napoli sa reinventare l’arte di arrangiarsi persino in chiave esoterica. Vorrà dire, infine, che affrontare mostri assetati di sangue per campare è meno spaventoso che fare i conti con le amarezze quotidiane della disoccupazione.

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