L’universo ‘basso’ e l’io poetico nel desiderio (omo)erotico della poesia del Novecento – Prima Parte

di Marco Antonio D’Aiutolo

 

Fulminava dal cielo aquila fosca.

Si sbandavano greggi, si sgolava il cane.

Già dell’azzurro il fanciullo

bagnava un’ultima volta la terra.

 

Sono i versi con cui si chiude ‘Il ratto di Ganimede’, una poesia di Umberto Saba. Di lui ne ho già parlato, concentrandomi sul suo romanzo postumo e inconcluso a carattere omosessuale, Ernesto. Nel presente, vorrei ritornare invece sulla sua poesia e sottolineare come sia stata un punto di non ritorno, in quanto inaugura uno spazio poetico attraversato da un eros elementare, pervasivo, molteplice e pone al centro l’universo ‘basso’, corporeo e viscerale, creando un precedente per ogni altro poeta omosessuale successivo.

Seguo il suggerimento di Luca Baldoni, in un saggio comparso sulla rivista culturale The Italianist nel 2006, L’uccello alto nella notte: corpo e spazio (omo)erotico della poesia italiana del Novecento. Menzionato nel mio precedente articolo, ha lo scopo di offrire “un primo contributo verso il riconoscimento della poesia italiana come ambito in cui l’espressione dell’amore tra uomini ha trovato un terreno estremamente fertile lungo tutto il Novecento”, ma che viene trascurato dall’“omofobia della critica accademica italiana” e anche dal “versante della critica alternativa”. Malgrado abbia riscontrato la presenza gay nel nostro Novecento, ha enfatizzato solo la narrativa.

Baldoni prende in considerazione alcuni nomi del nostro panorama poetico che abbraccia tutto il Novecento e muove proprio da Saba, a inizio secolo. Passa poi a Penna, nel corso degli anni ‘20 e a cavallo dell’Italia fascista e di quella del boom; attraversa Pier Paolo Pasolini, testimone delle speranze del secondo dopoguerra, degli anni del ‘mutamento antropologico’ degli italiani e dell’omologazione consumistica; e approda a “Dario Bellezza (1944-1996) che ci accompagna dal periodo della contestazione e della controcultura sino alla crisi dell’AIDS in pieni anni ’80 e ’90”. Poeti che, al pari di quelli dei paesi di lingua inglese (Walt Whitman, Hart Crane, W. H. Auden, Allen Ginsberg, Thom Gunn), mostrano tutta “una tradizione di scrittura omosessuale in versi unica”.

In generale, gli aspetti centrali evidenziati sono la scoperta del corpo maschile come oggetto erotico di desiderio, la capacità di coglierlo poeticamente senza pudori, abbattendo, “a livello di lessico e situazioni, una serie di tabù che sono stati in poesia altrettanto forti che nella società nel suo complesso.” E come, con tali riscoperta e rivolta, scaturisca “una presa di coscienza dell’io poetico del proprio corpo e della propria fisicità determinante per il suo percorso complessivo.” L’altro aspetto riguarda lo spazio, o meglio l’uso del corpo nello spazio, un uso ‘improprio’ di una serie di spazi pubblici, prevalentemente urbani e, per così dire, erotizzati sotto la spinta dei bisogni del corpo.

Umberto Saba

Già nella raccolta di Saba, Versi militari, che risale al 1908, presente nel Canzoniere (1900-1954) e pervasa da un vitalismo diverso da quello decadente e superomistico di D’Annunzio, si inizia a creare “un repertorio, per quanto ancora limitato, di vocaboli e situazioni.” Qui, la centralità eros-corpo genera due tipi di fenomeni contrari, diastole e sistole, espansione e soffocamento delle potenzialità vitali del soggetto. “La sfera istintuale è vissuta, freudianamente, sotto il segno della colpa e della mancanza di innocenza, sintomi che rimandano alla coscienza di un dissidio più generale tra istanze dell’individuo e costrizioni sociali, tra principio di piacere e principio di realtà.” Ma proprio il porre questa sfera alla base del fare poetico “permette alla poesia sabiana di essere da subito diversa dalle esperienze italiane contemporanee, e di proporsi anche come celebrazione di un ‘esserci’, testimonianza delle inesauribili risorse dell’individuo”. Ed è in una terzina del sonetto ‘Durante una marcia’ che troviamo l’espressione programmatica di questo atteggiamento: E vedono il terreno oggi i miei occhi/come artista non mai, credo, lo scorse./Così le bestie lo vedono forse. Saba prende coscienza di una definitiva liberazione dal verticalismo della pratica poetica idealista, liberazione fortemente ancorata a una realtà precisa: la vita di caserma, in cui il corpo maschile e le attività a cui è sottoposto sono il fattore scatenante di un ampliamento di orizzonte.

I corpi maschili dei giovani sono colti in situazioni punitive di sforzo e fatica fisica, di marce estenuanti, simulazione di attacchi, gavette interminabili e veglie notturne in cui sono sollecitati sino al limite delle possibilità di resistenza e forza muscolare. Nessun senso di eroismo e di celebrazione patriottica di prodezze virili, bensì una prospettiva che si mantiene prosastica, che coglie i corpi delle reclute ridotti dalla routine della naia a pura animalità. Nel sonetto d’apertura, i soldati sono un gruppo di ‘brutte facce’, miscuglio di ‘sudori’, a cui ‘mezza lingua fuori/[…] pende, come a macellato bue’. Le identificazioni con animali da soma, sparse qua e là nella raccolta, riflettono sì, “la condizione del corpo sotto un regime di assenza di libertà”, ma ne rivelano anche la presenza e il loro manifestarsi.

Il tono psicologico corrisponde a uno dei momenti di diastole nel Canzoniere. L’io poetico, giocando proprio sulla metafora animale enfatizzata verso il basso, si rappresenta duplice, come un centauro dal busto di poeta sopra arti poderosi e ben ancorati alla terra: ‘Equine gambe, cosce di possente/ mulo io scopro’. È la messa a fuoco della coscienza del poeta circa il proprio corpo duplice in un’epifania, a contatto costante con la fisicità di altri uomini. In questa rete di richiami al corpo di giovani uomini, un’alta dose di omoerotismo, quasi schiacciata nelle poesie incentrate su momenti di addestramento e di attività irreggimentata, si rende evidente in quelli di riposo: i corpi si ammorbidiscono, si slegano, sotto la maschera dell’animale compare il viso radioso del fanciullo. Né mancano esempi di corpo a corpo, in cui l’assenza di uno sguardo che ordina e controlla permette alle reclute il contatto fisico. L’omoerotismo trova sfogo nel gioco aggressivo, nella lotta simulata, o nell’immagine molto tenera, in contrasto con l’eterosessualità tipica dei contesti militari, di due soldati che ballano insieme.

Il ratto di Ganimede – Rembrandt

Prima di concludere vorrei passare a Il ratto di Ganimede. È un altro momento della produzione sabiana in cui il nesso corpo, corporeità e sguardo omoerotico emerge con chiarezza. La poesia è stata scritta “per Federico Almansi, il giovane con cui Saba intrattenne un’intensa relazione per circa quindici anni a partire dall’inizio degli anni ’30”. La figura dell’amante domina le raccolte Ultime cose (1935-1943), Mediterranee (1945-1946, in cui il testo su Ganimede è incluso) ed Epigrafe (1947-1948). ‘Il ratto di Ganimede’ è uno dei testi chiave e riprende il mito che narra il ratto di un bellissimo pastore troiano da parte di Zeus sotto forma di aquila. Un topoi dell’amore omosessuale o pederastico, a cui Saba ricorre nella fase di massima visibilità nel Canzoniere del desiderio omoerotico, rafforzandone il contesto e in cui la sua relazione con un uomo molto più giovane costituisce l’asse portante della trama del macrotesto poetico.

La sua volontà precisa è “di porre in risalto la corporeità del corpo maschile, mettendo l’erotismo in relazione con la funzione bassa, con la fisiologia dei liquidi. Il ratto del testo di Saba si conclude infatti con l’immagine di Ganimede che, sollevato dall’aquila, si fa la pipì addosso”: ‘…bagnava un’ultima volta la terra’. L’immagine, da un lato, prende spunto – come rivela il poeta stesso – dal quadro di Rubens Il ratto di Ganimede oggi alla Gemäldegalerie di Dresda. Solo in esso si riscontra questa scena di orinare, “né nelle fonti letterarie dell’episodio mitico né in nessun’altra opera figurativa”. Dall’altro lato, però, se ne distanzia. Con il quadro di Rubens, osserva sempre Baldoni, non siamo “di fronte ad una rappresentazione di Ganimede come il più bello e desiderabile degli uomini, l’ignudo muscoloso che campeggia ad esempio nei due disegni sullo stesso mito regalati da Michelangelo al suo amato Tommaso Cavalieri.” Bensì a un bambino rubicondo e grassottello, che esplode in una smorfia di paura al sentirsi ghermito e che, per questa violenta emozione, si bagna.

È il punto di arrivo di un processo di infantilizzazione e de-erotizzazione a cui vennero progressivamente sottoposte le rappresentazioni di Ganimede dopo la Controriforma, soprattutto in ambito nordeuropeo. L’uso che fa Saba di quel dettaglio inconsueto è invece quello “di erotizzare la scena”. Il suo Ganimede non è un bambino, ma un ‘pastore adolescente’ che cura il gregge e si misura agonisticamente e fisicamente con i suoi coetanei, maschi eroticamente aggressivi, ma, come in Versi militari, “pronti a sfogare la loro istintualità prorompente in un abbraccio fraterno e omoerotico”. Tale contesto quindi determina un’inversione di segno del dettaglio rubensiano: “da espressione della paura del bambino Ganimede… diventa immagine segnatamente erotica che rimanda agli umori bassi, ai sudori delle lotte dei ragazzi, alla perdita di fluidi che caratterizza anche l’eiaculazione.” In un’immagine di rapimento estatico, il primo orgasmo omosessuale fa capolino nella poesia italiana del Novecento.

Vorrei che si focalizzasse l’attenzione su questa immagine, perché in un secondo articolo su questo tema ripartirò, come Baldoni, proprio da essa per evidenziare in che modo gli elementi presi qui in considerazione si evolvano e sviluppino, in un continuo confronto con Saba, nella poesia di Penna, Pasolini e Bellezza.

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