Torino 36, “I Do Not Care if We Go Down in History as Barbarians” di Radu Jude: la ripetibilità del Male

I grandi fatti e i grandi personaggi della Storia si verificano, per così dire due volte. Così affermava Hegel in una delle sue opere. Riprendendo quest’affermazione del filosofo dell’Idealismo, nel suo Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte Karl Marx aggiungerà che la prima volta essa si presentava come tragedia, la seconda come farsa. Non è una farsa, tuttavia, lo spettacolo teatrale all’aperto che la regista Mariana Marin, probabile avatar del regista, sta cercando di mettere in scena tra mille ostacoli, sia di carattere burocratico che artistico, cercando inoltre di destreggiarsi in una relazione sentimentale complicata con un comandante d’aerei sposato. Non è una farsa, infatti, in quanto il titolo del film e dello “spettacolo nel film” prendono spunto da una citazione delle infami parole dell’ex generale e Primo Ministro rumeno Ion Antonescu, pronunciate dal militare e politico nel 1941 durante un discorso che aprì le porte ad una persecuzione antisemita che sfociò nel cosiddetto “massacro di Odessa” durante il quale, tra il 22 e il 24 ottobre, tra i 25.000 e i 34.000 ebrei furono sterminati per rappresaglia, una strage che preparò il terreno e anticipò persino l’Olocausto e la “soluzione finale” messi in campo da Hitler.

Risultati immagini per i don't care radu judeCome in due dei suoi lavori precedenti, Scarred Hearts Aferim! Radu Jude, uno dei registi di punta del nuovo, fertilissimo cinema rumeno, guarda al passato del suo Paese e lo utilizza per ragionare sul presente. A differenza dei due film citati, tuttavia, i quali erano anche ambientati in epoche precedenti (rispettivamente gli anni ’30 del secolo scorso e gli inizi del 1800), in I Do Not Care if We Go Down in History as Barbarians, vincitore del primo premio allo scorso Festival di Karlovy Vary, siamo al giorno d’oggi, in una nazione dove il recente passaggio dalla dittatura di Ceausescu alla democrazia non ha ancora consentito di fare i conti con il passato. La scelta, come ha spiegato lo stesso regista in un’intervista, è dovuta a due esigenze: una di ordine pratico (la scarsità di mezzi per riprodurre un massacro di tale portata), l’altra, e la più importante, di ordine morale che nasce dalla necessità di rendere plasticamente e artisticamente l’idea della Storia come continuum tra passato e presente secondo le riflessioni di Walter Benjamin. Il magnifico film di Jude (il cui cognome curiosamente significa “ebreo” in tedesco) sceglie un tono leggero e a tratti persino giocoso, soprattutto nelle scene ambientate sul set dello spettacolo che si va preparando, e mette a frutto un’intelligente mescolanza di filmati e foto d’archivio, citazioni letterarie (tra cui la lettura di un corposo passo tratto da un’opera di Isaac Babel, e un altro più breve di Giorgio Agamben), lunghe conversazioni e acutissime disquisizioni filosofiche tra Mariana e Movila, un occhiuto funzionario governativo che l’ha aiutata a finanziare il progetto, il quale la invita a non calcare troppo la mano, provocandola con continue e irricevibili allusioni a un presunto vittimismo del “popolo eletto”.

Risultati immagini per i don't care radu judeHannah Arendt, Ludwig Wittgenstein, Elie Wiesel, Steven Spielberg, Leni Riefenstahl sono solo alcuni dei nomi tirati in ballo in quello che diventerà un vero e proprio duello verbale tra i due antagonisti, il cui gioco delle parti non appare mai scontato o prevedibile. Particolarmente accattivante per il suo spirito provocatorio risulta, ad esempio, la teorizzazione da parte di Movila di una sorta di “darwinismo dei massacri” che ha fatto sì – secondo l’uomo –  che sia l’eccidio più “pubblicizzato” a sopravvivere maggiormente nella memoria collettiva, generando un sostanziale oblio verso altri, non meno cruenti, ma destinati fatalmente ad essere rimossi o sconosciuti. Ad esempio, perché l’Olocausto e non lo sterminio di 25 milioni di persone in Cina al tempo della fine della dinastia Ming? Perché nessuno cita mai il genocidio degli Herero, popolo africano di etnia bantu, trucidati dai soldati tedeschi  nel 1904 in un territorio che oggi coincide con l’attuale Namibia? Sono questi alcuni degli interrogativi con cui l’uomo incalza la coriacea regista, splendido personaggio femminile di donna indipendente e volitiva, di artista colta, coraggiosa e intelligente. In questo senso, appare una scelta di grande sottigliezza da parte del regista quella di non appiattire il personaggio del censore per renderlo, al contrario, un acuto indagatore di molti stereotipi, uno sferzante provocatore, capace di mettere in campo una dialettica che apre a molteplici riflessioni e dà voce persino ai pensieri più rimossi, fastidiosi e politicamente scorretti.

Mettendo in campo un approccio che guarda al teatro di Bertolt Brecht, Jude preferisce la riflessione sull’evento piuttosto che una sua rappresentazione più o meno realistica: questo gli consente sia di mostrare e raccontare i fatti, sebbene in modo palesemente “finto”, sia di riflettere sul fatto che essi sono perfettamente collegati al mondo di oggi, dove la Romania non riesce a fare i conti con la sua storia mentre in Europa si assiste alla preoccupante rimonta di venti fascisti, razzisti e xenofobi. Non si tratta quindi soltanto di esplorare un evento storico ma anche di indagarne il modo in cui è possibile e giusto rappresentarlo, soprattutto in un’epoca in cui il pullulare di fake news rende il concetto di “oggettività” qualcosa di estremamente precario costringendo molto spesso i destinatari della comunicazione e i fruitori e gli spettatori di opere artistiche ad una complessa decodificazione e a una continua azione di verifica e di controllo delle fonti. Il punto di arrivo di tutta questa riflessione sul dispositivo condotta da Jude è la dimostrazione del sostanziale fastidio da parte dei suoi connazionali nel rievocare una vergognosa pagina di storia nazionale, nella volontà di negarla o giustificare in qualche modo l’operato di chi ne fu protagonista. Anzi, come mostra il potente e inquietante finale, tragicamente attualissimo, non manca tra la folla degli spettatori un cospicuo numero pronto ad applaudire davanti alla rievocazione messa in scena alla presenza delle autorità politiche, e a considerare come eroi nazionali gli autori dell’eccidio contro il “nemico”. Il Male, sembra allora volerci dire il regista mutuando il famoso concetto elaborato da Hannah Arendt, è banale. E perciò ripetibile.

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