Metà Brasile si è votato a una democrazia sanzionatoria

L’uomo lontano dall’uomo. Il dislocamento dentro il terzo millennio ha riaccorpato le derive dapprima scongiurate dal dopoguerra in Europa, poi a lungo sperimentate dalle dittature e dalle giunte militari in America Latina. La civiltà in cui ormai quasi ogni dibattito funziona per una sottrazione in cui togliere, cassare, abbattere, devastare lo spazio intellettuale e ogni forma di sensibilità non edifica altro se non uno spaesante senso di vuoto, sta maturando forme democratiche sanzionatorie. Il voto punisce la società secondo maggioranza. L’approvazione di modelli politici e amministrativi confezionati in sogni che in altre epoche avrebbero assunto i toni dell’incubo oggi s’impongono nelle istanze popolari riabilitando parole e concetti dai significati inquietanti. Lo schiaffo ai fallimenti dei partiti, alla corruzione politica e istituzionale e a ogni altra forma di delusione civile sa (nella maggior parte dei casi) concretizzarsi soltanto in quel voto dal dito puntato contro, per cui la mano che lo regge non è del votante, ma di chi con astuzia e solerzia ha saputo persuaderlo con l’unica opera di convincimento a disposizione di personalità grette e spregiudicate: quel senso di vuoto causato da lunghe stagioni politiche che, poco a poco, hanno disonorato i drammi e i sacrifici che le avevano date al mondo. Non sono bastati secoli di guerre e tragedie di cui ancora nessuno è in grado di quantificarne l’entità.

In Brasile, stando a quanto accaduto nelle ultime settimane – e non si sa ancora in che proporzioni Bolsonaro potrebbe uscire vincitore dalle elezioni politiche nazionali -, la parola corruzione, a lungo predicata dai media brasiliani, a volte fondata su scandali realmente avvenuti, altre volte a guardia di una lunga operazione approssimabile a un golpe, ha facilmente scardinato la credibilità di un processo politico iniziato con Lula, che, al di là di ogni imputazione, qualcosa aveva pure cambiato (nel Brasile nordestino, dove gli interventi dell’amministrazione di Lula avevano restituito speranze alle regioni più povere del Brasile, i risultati elettorali hanno detto di una riaffermazione dei partiti di sinistra). E l’ha scardinata più di quanto abbiano fatto i decenni terribili che in precedenza avevano governato il Brasile con le dittature. Ove mai qualcuno dimenticasse che queste sono altrettanto corrotte quanto, o ancora di più, i sistemi democratici. Del resto, non si comprende come si possa migliorare il nuovo riproponendo il vecchio che danni peggiori aveva a suo tempo causato. Prima o poi, arriva sempre qualcosa a spazzare via i memoriali più crudi della storia. Del resto, il patibolo della memoria è il dimenticatoio.

I risultati del primo turno alle elezioni nazionali in Brasile hanno detto di una scelta, per la quasi metà delle persone che si sono recate alle urne, indirizzata verso Jair Messias Bolsonaro (che ha ottenuto il 46% delle preferenze), esponente del PSL (Partido Social Liberal), fazione di radici nazionaliste e conservatrici. Ex ufficiale delle forze armate, Bolsonaro mai ha fatto mistero delle sue simpatie per la vecchia dittatura militare, confermando le sue idee autoritarie anche in un discorso alla “Camera bassa” del Congresso nazionale del Brasile in cui ha ribadito, a suo tempo, l’inefficacia del sistema democratico per risolvere i problemi del suo paese. Bolsonaro, che nel ballottaggio sarà fronteggiato da Fernando Haddad (rappresentante dell’area progressista), ha fondato la costruzione del suo successo politico sul malcontento popolare, soprattutto tra gli strati sociali di quella classe media che in Brasile rappresenta il momento più delicato negli equilibri tra le forze di una società la cui intolleranza colpisce prima di tutto se stessa. In Brasile, inoltre, si è verificato un subdolo fenomeno per cui a una crescita economica che ha condotto più persone a possibilità migliori ha fatto poi seguito un’involuzione determinata da un forte periodo di crisi, in cui, come ha dichiarato Renato Meirelles in un’intervista recentemente uscita su un sito giornalistico brasiliano: “Una cosa è ambire alla possibilità di viaggiare in aereo, altra cosa è scoprire quanto sia meglio farlo dopo che si è stati costretti a tornare a spostarsi in autobus”.

Come sottolineato dal filosofo Vladimir Safatle, la campagna mediatica di Bolsonaro è stata fortemente incentrata da una tempesta di fake news (il filosofo cileno ha definito Bolsonaro un “Goebbels ai Tropici”, mentre The Guardian lo ha apostrofato “Il Trump dei Tropici”), unita a un’inconsapevolezza sui reali significati di quanto certe manifestazioni stessero portando avanti. Il clima politico internazionale, che ormai ha ceduto alla spirali delle derive di estrema destra, ha condizionato una cultura della percezione alterata da artifici mediatici caratterizzati da autentici montaggi ad arte. Safatle ha inoltre ricordato quanto, qualora Bolsonaro dovesse confermare al ballottaggio il suo successo, la leadership di un presidente autoritarista diventerebbe “una spada di Damocle sopra la testa del Brasile, perché Bolsonaro, se dovesse trovare difficoltà all’interno del Congresso, non esiterebbe ad avviare processi di autogolpe, onde confermare il suo potere e il suo governo al di là delle normali procedure parlamentari”.

The Guardian

Se esistono delle responsabilità da parte del PT (il Partito dei Lavoratori, quello di Lula)? Carlos Alberto Libanio Christo, meglio conosciuto come Frei Betto, tra i maggiori teologi brasiliani del XX secolo (anche tra i più autorevoli teorizzatori della Teologia della Liberazione), nonostante ribadisca il riconoscimento al governo di Lula di azioni nuove e innovatrici per la storia democratica del Brasile, imputa ai partiti di sinistra una responsabilità soprattutto filosofica e strategica. “Non abbiamo saputo condurre il cittadino al centro del processo politico. Non si è sentito protagonista. Non è bastato intervenire su aspetti concreti. Sarebbe stato importante centrare lo spirito di appartenenza dei brasiliani. Tutto è stato reso vano dalla mancanza della contropartita della densità soggettiva, ovvero di quella visione che avrebbe chiarito al cittadino come situarsi nel conflitto sociale”.

Oltre ai rischi preventivabili da un’affermazione definitiva di Bolsonaro (il Brasile potrebbe pregiudicare quanto raggiunto dai grandi movimenti nazionali in materia di povertà e conquiste sociali), emerge la crisi dell’atteggiamento civile, disposto ad affidare il governo di un paese a un potere culturalmente orientato all’autoritarismo. I segni stessi dicono di una predisposizione inquietante. La parte anche inconsapevole della comunicazione fornisce i segnali dell’approvazione per quanto, invece, una società realmente progredita dovrebbe scongiurare e condannare. L’immagine circolata sul web che ritrae un gruppo di donne nella sede dell’arcidiocesi di Rio de Janeiro che fanno il segno del fucile, emulando uno dei simboli mimici della campagna elettorale di Bolsonaro, ha destato non poco scalpore. Colpisce che il gesto avvenga con la statua di Cristo sul fondo del corridoio. Una fotografia emblematica, che riassume i contenuti drammatici di un privilegio a una frivolezza nera, a dispetto dell’imbarazzo che certi atteggiamenti dovrebbero procurare, e che invece mutano in bandiera d’occasione.

L’orientamento collettivo fa sì che ognuno imiti qualcun altro, derogando alla rabbia altrui la giustificazione a scelte prive di fondamento. Il dizionario della prudenza intellettuale è stato messo a soqquadro, consolidandone uno di riserva, un logoro prontuario da supermarket in cui abbonda l’adozione di parole ambigue, prive di significati precisi e facilmente in prestito a fraintendimenti. Tolleranza, legalità, inclusione, parità, uguaglianza e via discorrendo urlano quotidianamente un’apologia dello sproposito che indebolisce la “serietà” di concetti e tensioni che dovrebbero godere di un rigore antico, di una ferrea e salda immunità alla manipolazione e alla strumentalizzazione. Allora accade che le più grandi istanze debbano soccombere a un’artificiosa e pedante salvaguardia di principi parassitari, poco a poco tramutati in lente e inesorabili corrosioni. E così, il veleno viene versato dentro l’antidoto, col rischio di non riuscire più a distinguere il pericolo dalla necessità, una soluzione da un problema. Già da molto tempo è in atto una commistione a cui media, politica e intellettuali partecipano alimentando alterazioni e confusioni. L’effetto è che ogni strumento ne esce sistematicamente neutralizzato in questo ciclo di scelte rabbiose e affannose in cui le grandi possibilità vengono ogni volta perdute. Lo spreco per eccellenza della modernità.

Immagine dell’articolo di Fabio Motta

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