Intervista alla scrittrice Francesca Brancati, autrice di “E se restassi?”

Intervista a cura di Christian Coduto

Francesca Brancati ha 32 anni, ha origini napoletane ma vive in Puglia da sempre. Attivista della causa LGBT, è salita (suo malgrado) agli onori della cronaca a causa di uno spiacevole episodio di cui parleremo nel corso dell’intervista. La incontro presso la sede di RainArcigay Caserta in occasione della presentazione del suo primo libro, il romanzo autobiografico E se restassi? (2017, Andrea Pacilli editore, 159 pagine).

La prima domanda viene da sé: chi è Francesca Brancati?

Francesca Brancati (ci pensa su, ndr) è una ragazza che vive in una realtà piuttosto difficile, complessa, in provincia di Foggia. A Manfredonia per la precisione. Un giorno ho deciso di intraprendere la strada dell’attivismo. Anzi, per la precisione, è stato l’attivismo a scegliere me. Il tutto ha avuto inizio con il mio coming out: potrà sembrare un paradosso, ma i primi a saperlo sono stati i miei nonni. Due persone ottantenni, profondamente cattoliche, che mi hanno accolto nel modo più sereno e rassicurante possibile; a tal proposito, ho utilizzato il termine “accogliere” e non “accettare”, proprio perché non c’è nulla da accettare. Si condivide, piuttosto. Dopo di loro è stata la volta dei miei amici e, infine, dei miei genitori. Anche in questo caso ho trovato terreno fertile. Ero giovanissima: avrò avuto sì e no venti anni. Sono stata una donna fortunata: avendo le spalle forti, ho deciso di regalarmi la possibilità di lavorare per gli altri. Sia chiaro: Francesca Brancati è il risultato di tutto ciò che ha portato al suo coming out, che racchiude momenti positivi e negativi. Pur avendo una famiglia propositiva, ho lottato ugualmente con i miei demoni, le mie paure. Detto questo, vorrei aggiungere una cosa: molto spesso si tende a drammatizzare. Essere gay, lesbiche, transessuali e così via non è un disastro cosmico. Si può vivere anche felici (ride). La vita è dura sempre, non è facile per nessuno. Se sei gay hai delle cose da sistemare per capire, comprendere. Una malattia grave, per esempio, implica altre problematiche, che sono sicuramente più difficili da affrontare. Una dose di leggerezza, talvolta, aiuta.

Bum. La prima risposta è di quelle che mi lasciano spiazzato: raramente, tra gli artisti che ho avuto l’onore di intervistare, ho incontrato una persona in grado di disorientarmi in questo modo. C’è una forte dose di autocritica e di consapevolezza, certo, ma ciò che arriva a me è, soprattutto, un’energia positiva. Il tutto raccontato con una calma serafica, ammirevole.

Parliamo di E se restassi?, il tuo romanzo d’esordio?

Ho iniziato a scriverlo molti anni fa, sui banchi di scuola. Una sorta di diario di bordo. In quel periodo, ovviamente, era per me una sorta di momento catartico. L’ho abbandonato per un po’ di tempo e ho deciso di riprenderlo dopo alcune cose spiacevoli che mi sono successe. La mia esigenza di scrivere si è risvegliata all’improvviso. In quel periodo vivevo in una casa di fronte al mare, il mio habitat naturale che, non a caso, ricompare spesso nel romanzo. Completamente da sola, con un calice di vino, ho dato vita a questo libro. La solitudine è stata fondamentale: scrivere è un momento mio, solo mio, che precede la condivisione. Scrivere, da un certo punto di vista, amplifica la solitudine, ma in una forma positiva: la rende più bella, più significativa. Il titolo è stato scelto da una mia carissima amica dopo averlo letto.

Una curiosità: perché il titolo di ciascun capitolo è in latino?

(Scoppia a ridere) Io ho frequentato Scienze sociali, alle superiori, proprio perché lì non c’era il latino. Devi sapere che io odio il latino. La ritenevo una lingua distante, obsoleta. Poi, negli anni, questo disprezzo, si è trasformato in attrazione; così, quando l’editore mi suggerì di suddividere la storia in più capitoli, per renderla più fruibile, ho fatto questa scelta. In questo modo ho conferito una maggiore solennità al tutto. Ah a proposito: non ho aggiunto le traduzioni alle frase scelte, sai perché? La gente deve scervellarsi a ricercare il significato delle parole. Cioè, intendo: spesso “googliamo” solo per le stronzate. E la cosa più bella sai qual è? La scelta che ho fatto è stata molto apprezzata; è una cosa che mi inorgoglisce.

La storia è fortemente autobiografica, non a caso la protagonista si chiama proprio come te. Quanto è rimasto, in te, della Francesca di allora? 

Nel corso della lettura, avrai sicuramente notato l’evoluzione non solo del personaggio, ma anche della scrittura. È una cosa che mi preme sottolineare: la storia ricopre dodici anni della mia vita. La Francesca che passava le mattinate sui banchi di scuola, non è che non ci sia più, c’è ma è maturata. È meno impetuosa, è più riflessiva. Ha smussato gli angoli e ha acquisito maggiore consapevolezza di sé. Ora vedo, su di me, quell’abito che avevo immaginato quando ho iniziato a scrivere il libro. Cambierò ancora, ne sono certa. Scrivere mi aiuterà nel mio percorso: è come se riuscissi a modellarmi grazie alle parole.

È una comunicatrice nata: conosce i tempi, le dinamiche, i toni da utilizzare. Soppesa ogni parola e utilizza quelle più adatte per esprimere le sue idee. Ti ammalia con la sua voce.

In E se restassi? viene data tanta importanza non solo alla famiglia, ma anche all’amicizia: faccio riferimento, in primis, alla figura di Flavio. Un’amicizia empatica, nonostante la distanza.

Le persone di cui parlo nel libro sono tutte esistenti. I nomi, è chiaro, sono stati modificati. Tra me e il vero Flavio c’è un’amicizia fortissima, che è stata ed è un’ancora di salvezza. Lui è più grande di me; ci siamo fatti forza “giocando”: rincorrendo le farfalle, per esempio, ma anche parlando nei momenti giusti. Alcune cose sono state raccontate dopo tanti anni: se, all’inizio, il tutto mi era sembrato strano, a un certo punto mi sono resa conto che, forse, era stato giusto così; le cose devono andare in questo modo, in alcuni momenti della tua vita. In amicizia non è necessario sempre parlare. Basta guardarsi negli occhi e capire. Un amico vero è il tuo spazio intimo. Stare insieme a Flavio è come stare a casa. A tal proposito: non vedi l’involuzione che riguarda i rapporti umani a causa di Facebook? “Tu non hai messo il like”, “Non hai visto che …”. I miei più cari amici li vivo lontana da lì. Ora, sia chiaro: non è che voglia fare una campagna contro i social. Attraverso Facebook riesco a mantenermi in contatto con amici che vivono in altre parti del mondo. Anche per parlare del libro mi è stato di grandissimo aiuto. Penso solo che dovrebbe essere usato nel modo giusto. Dovremmo essere rieducati all’utilizzo degli strumenti. Tornando a Flavio: proprio nei giorni scorsi mi ha telefonato e mi ha detto di essersi riconosciuto nella storia (sorride).

Hai fatto riferimento ai social: tu sei stata vittima di una fake news gravissima. Ti va di parlarcene?

Certo. L’anno scorso mi è arrivato un messaggio di un’amica, con un link: lo apro e trovo una mia foto, in compagnia della mia ex. Era un articolo che informava del fatto che una coppia lesbica avesse massacrato di botte il proprio figlio di quattro anni perché non aveva voluto chiamare papà una delle due. Una notizia vera, tra le altre cose, ma che non riguardava me, ovviamente. All’inizio sono rimasta scioccata, poi ho iniziato a capire qualcosa di più: era un sito collegato a Catena umana (un sito famoso per le sue “bufale”, ndr) e a un’altra serie di pagine. Ho chiamato immediatamente i miei legali di fiducia. Pensi subito alle potenziali conseguenze di una cosa simile: rischi il linciaggio senza aver commesso nulla. A quel punto mia mamma ha avuto un’illuminazione, consigliandomi di contattare qualche canale televisivo; così, grazie al supporto de “Le Iene”, siamo riusciti a capire chi fosse il colpevole della cosa. Anche perché, dietro ogni click, c’è un grossissimo business economico. Da un punto di vista umano, emotivo sono uscita davvero provata da questa esperienza, soprattutto se consideriamo il fatto che io ho davvero un desiderio di genitorialità profondissimo. A distanza di tempo ho capito il perché di questa fake: pochi giorni prima, il Tribunale di Treviso aveva emesso una sentenza di riconoscimento di affidamento ad una coppia gay. Quindi, per cavalcare l’onda, si era dato il via a tutta questa messinscena. Al momento, vorrei aggiungere, la mia denuncia è ancora ferma in Procura. È mia intenzione fare un altro tentativo di natura mediatica. Non sono una tipa che si arrende, credo si sia capito (ridiamo). Anche perché, qualora dovessi avere un risarcimento, il mio desiderio sarebbe quello di aprire una struttura di accoglienza per le persone LGBT.

Anche mentre mi racconta questo sgradevole evento rimane composta, la voce è controllata. Potrebbe arrabbiarsi, buttare fuori delle ingiurie nei riguardi di chi l’ha messa in difficoltà. Ma non lo fa. Mi rivela che questo autocontrollo è il risultato del suo avvicinamento alla disciplina buddista.

Cosa augura Francesca Brancati a E se restassi?

Che resti (sorride).

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