Il vuoto del nulla senza dio e la saggezza umana. Un possibile senso del Natale per il non credente

di Marco Antonio D’Aiutolo

Si potrebbe definire l’uomo come ciò che sorge allorché l’autoespressione di Dio, la Parola, viene lanciata per amore nel vuoto del nulla senza-dio; si è chiamato il Logos incarnato, il verbo abbreviato di Dio…Se Dio vuole essere non-dio, sorge l’uomo proprio lui e null’altro”. Queste parole, apparentemente difficili, di un teologo cattolico tedesco, Karl Rahner, aprono a una riflessione sul senso del Natale che può interessare persino un non credente come me.

Ma chi è il non credente? Secondo Erri De Luca, a differenza dell’ateo, che presume di aver risolto il problema Dio, il non credente non ha risolto un bel nulla. “È una persona che tutti i giorni frequenta le Scritture Sacre, anche se…non può rivolgersi alla divinità”. Né resta ignavo dinanzi all’interrogativo su Dio, ma prende posizione. Se, per il Vangelo, le risposte possibili sono sì se è sì, no se è no, egli risponde: no! E non è certo una decisione pacifica. Al pari del credente, è in un continuo e rinnovabile atto di fede, perché crede di non aver bisogno di una salvezza trascendente. Se mi è concessa un’immagine biblica, è possibile descrivere questi atti di fede – in cui credenti e non sono sullo stesso piano umano – come la lotta di Giacobbe con Dio (cfr. Genesi, cap. 32, vv., 24-32). La lotta si consuma nel vuoto del nulla senza-dio. E proprio in questo vuoto si inserisce la mia riflessione sul Natale.

Se l’uomo sorge, come dice Rahner, quando Dio vuole essere non-dio, cioè Logos (Parola) che si fa carne (uomo) nel vuoto del nulla senza-dio, allora è in questo vuoto-senza-dio che credenti e non compiono lo stesso atto di fede in cui si decide per il divino e per il mondo. Non si tratta però un vuoto a perdere. La decisione avviene in uno spazio di incontro, relazione e dìa-logos (parola-tra), mediante cui essi originano il senso e il valore, dando forma alla Weltweisheit: sapienza (weisheit) del mondo (welt).

La parola tedesca ricalca l’espressione paolina “sapientia mundi” (cfr. I Cor., cap. 3, v. 19). L’Apostolo vi si riferisce in maniera negativa e vi contrappone l’autentica sapienza divina e cristiana. La critica, che riguarda la sua pretesa di autosufficienza, il suo porsi come unica e ultima norma, per un credente può avere anche una logica, ma non per il non-credente. Per questi, effettivamente, quella sapientia resta l’unico criterio normativo disponibile. La Weltweisheit è vera saggezza autonoma. Non nel senso tecnico-pragmatico: per cui c’è bisogno di scienza e istruzione; né si tratta di una conoscenza precostituita, onnisciente, di un contenuto innato o infuso. Si tratta, bensì, di conoscenza pratica e semplice.

In un film di Guido Chiesa del 2010, dedicato a Maria, Io sono con te, nella storia di questa ragazzina di Nazareth ho colto l’autentica sorgente di una saggezza genuinamente umana. Essa si palesa nel contrapporsi, da parte di Maria, a usanze, costumi, leggi e rituali della comunità in cui è cresciuta ed è stata educata, e di farlo con coraggio, fermezza, ma anche gentilezza: un clan maschilista e patriarcale che pratica la circoncisione e i sacrifici al Tempio, versamento inutile di sangue, da lei considerato cruento e crudele.

Ma l’aspetto più rilevante del film è la relazione di rispetto e riconoscimento che Maria intrattiene con il figlio. Centrale, infatti, è l’incontro con i sapienti greci che giungono in Giudea alla ricerca del Messia divino. Nel visitare le case dei palestinesi essi sottopongono i bambini a esami psico-attitudinali, per verificare se vi sia qualcuno con doti straordinarie e divine, senza ottenere alcun risultato soddisfacente. Un giorno, però, assistono ad una scena insolita. Un bambino sale indisturbato sull’orlo di un pozzo e vi cammina sopra. Sebbene la madre sia nelle vicinanze, intenta a zappare in un orticello, apparentemente pare non si curi di lui. I sapienti, allarmati, le gridano contro, rimproverando la sua negligenza. Lo stesso episodio si ripete nei giorni successivi. Questa volta, però, i sapienti restano a osservare e vedono che il bambino cammina sul bordo senza cadere nel pozzo. A questo punto, interrogata la madre, giungono a una conclusione rivelatrice: “Forse oggi abbiamo appreso qualcosa di importante sulla natura dell’uomo e le leggi che la governano… Noi stiamo cercando un bambino, il soccorritore divino. Ce lo immaginiamo dotato di poteri soprannaturali. E se fosse invece un bambino qualunque e se fosse invece il modo in cui sta crescendo a renderlo speciale, un giorno?… Se quella madre avesse impedito al figlio di avvicinarsi al pozzo o avesse limitato in qualche modo la sua libertà, la sua sana libertà, avrebbe compromesso la sua fiducia in se stesso. Al contrario, lasciandolo libero, l’ha favorita. Allora, potrebbe essere questo il prodigio: una madre che crede fino in fondo nel suo bambino. Tutt’e due che agiscono secondo le leggi che Dio ha inscritto in noi… Quella ragazza, l’avete vista? È una meraviglia con il suo bambino. Porta in sé una tale saggezza! Miei cari amici, al confronto, tutto il nostro sapere non vale niente, o quasi. Lasciamo fare a lei. Se insistiamo, rischiamo di rovinare tutto”.

È questa la conoscenza pratica. Si può anche essere inesperti dell’andamento del mondo, dei moti celesti o non sapere nulla della natura umana, ciò nondimeno l’uomo e la donna semplici possiedono questa saggezza. La quale consiste nella consapevolezza del discernimento autonomo e nella percezione della giusta direzione da praticare (il senso di giustizia). Senza nulla cui aggrapparsi in cielo e a cui appoggiarsi sulla terra, uomini e donne sanno che, in ogni loro sentire, decidere e agire, sono coinvolti, stanno prendendo posizione su se stessi e devono risponderne in prima persona (responsabilità): stanno dando direzione (senso, logos) alla loro vita. Questa è fede morale, che è la stessa nel credente e nel non-credente, la stessa saggezza che anche quest’ultimo può cogliere nella giovanissima e piccola donna israelita e in suo figlio: le due figure centrali del Natale.

Nessun miracolo! Ciò che favorisce e caratterizza quest’esperienza umana è quel rapporto di fiducia. Qualcuno potrebbe osservare che sia proprio questa la manifestazione del Sacro e che la saggezza di quella madre sia nutrita dalla fede nell’amore fiducioso di Dio. Non voglio negare ciò: è sicuramente l’esperienza del credente. Tuttavia, anche per il non credente si rende comprensibile il logos (la logica) di tale esperienza, come fatto umano. Siamo nel vuoto del nulla senza dio, dove sorge l’uomo e l’autentica e semplice saggezza universale. Per questo, come ha scritto Kant: “Davanti a una persona di umile condizione, in cui colgo una dirittura di carattere… il mio spirito si inchina… il suo esempio mi presenta una legge che abbatte la mia superbia… e il fatto stesso dimostra davanti ai miei occhi che a questa legge si può obbedire: che essa è, pertanto, eseguibile”.

La legge di cui parla Kant non è una legislazione imposta dall’esterno, dall’alto o da un Super-Io. È un dinamismo auto-normativo conscio e interiore che spinge ogni uomo, il più semplice, a riconoscere in sé e negli altri un ideale di autonomia: quel discernimento e quella responsabilità che rendono degni di rispetto, aprono a relazioni sincere e originano la riflessione dialogica. Ed è quella Weltweisheit, senso etico che qualsiasi uomo di buona volontà può attribuire al Natale: ancora una volta, quel vuoto del nulla senza-dio in cui l’umano trionfa. Non nell’arroganza, bensì nell’umiltà e nella fragilità di una donna e di un bambino. È la saggezza che ogni scienza deve riconoscere e che, come scrive un filosofo ebreo-tedesco, Franz Rosenzweig, è al servizio dell’uomo. Non umiliazione o servilismo, ma capacità di assumere il punto di vista dell’altro, così come fa Dio divenendo uomo. Il che, secondo un altro teologo tedesco, questa volta evangelico, Jürgen Moltmann, “non comporta alcun relativismo”, bensì “un atteggiamento relazionaleSi pone cioè in relazioni con gli altri, e questo non significa rinunciare a se stessi. La relazionalità del proprio punto di vista con quello degli altri significa vivere in rapporti concreti e pensare al proprio in riferimento all’altrui. L’assenza di rapporto significherebbe la morte”.

 

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