Lo scandalo della Storia

Gli insegnanti di letteratura sono inclini a escogitare problemi come «Qual è l’intento dell’autore?» o, ancora peggio, «Che cosa sta cercando di dire questo tizio?»” (Vladimir Nabokov, A proposito di un libro intitolato Lolita, 1956, in Lolita, Adelphi, 2017)

Nel 1974 Elsa Morante, a diciassette anni di distanza dal suo ultimo romanzo, pubblica con Einaudi, direttamente in edizione economica, La Storia, sollevando immediatamente un polverone di carta e penne acuminate con cui i giornalisti scrivono la parola “scandalo”.

La protagonista dell’opera è Ida Ramundo, insieme a lei i suoi due figli: Nino, scapestrato ragazzo delle borgate romane, e Giuseppe, detto Useppe, figlio della violenza da parte del soldato tedesco Gunther. Con il sottofondo della seconda guerra mondiale si susseguono le tragedie di Ida e della sua famiglia, dei fascisti e dei partigiani, dei soldati al fronte e degli sfollati, di tutti coloro che in una citazione di un sopravvissuto di Hiroshima, riportata in una delle epigrafi di apertura al testo, vengono definiti “cavie che non sanno il perché della loro morte”.

In apertura di ogni capitolo è presente una cronistoria degli eventi bellici in carattere differente rispetto al corpo principale del romanzo. La scrittrice, attraverso questo accorgimento, ha inteso creare un rapporto di distanza tra i due elementi della sua opera: quello storico e quello romanzesco. Contrariamente a quanto avveniva nei romanzi storici d’impianto tradizionale, ne La Storia i personaggi non agiscono in concerto con gli eventi della loro realtà: al contrario, la Storia appare come un’entità caotica e staccata dalle personali vicende dei protagonisti.

Già dalla sua pubblicazione La Storia destò l’interesse di numerosi critici e scrittori. Tutti espressero il proprio parere nei confronti dell’ultima fatica di Morante bollandola nei modi più disparati: da molti fu esaltato, anche con una certa ingenuità. È il caso di Natalia Ginzburg e di Cesare Garboli. Tuttavia, i più espressero giudizi fortemente negativi non tanto sulla qualità dell’opera, quanto sul suo contenuto ideologico.

Il romanzo venne descritto come da Italo Calvino  come “popolare“, quella che poi è rimasta la definizione più diffusa; accusato di essere uno spot pubblicitario dal critico Alberto Asor Rosa, e un pastiche da Pier Paolo Pasolini, il quale anche a seguito di queste critiche perse l’amicizia dell’orgogliosa scrittrice. Soprattutto venne stroncato dai giornalisti del quotidiano Il Manifesto che, in un articolo del luglio 1974 dal titolo emblematico, Contro il romanzone della Morante, definirono La Storia una “elegia della rassegnazione”, pur non avendone letto che poche pagine. Non pochi tra i critici più veementi ammisero di non aver letto che poche pagine di quella scandalosa “cattedrale di carta” che è La Storia, limitandosi a un’analisi superficiale e travisandone i contenuti in chiave deamicisiana e populista.

Graziella Bernabò, una tra le più autorevoli studiose di Elsa Morante, nel registrare un simile polverone di recensioni strumentali scrisse: “[…] Tanto clamore, lungi dal giovare a una effettiva comprensione dell’opera in senso letterario, ha contribuito assai spesso a distogliere l’attenzione del lettore dal vero e proprio testo”.

In realtà il vero scandalo de La Storia non risiede nelle sue caratteristiche ibride, all’interno di un genere già bifronte, ma nelle dediche e epigrafi poste all’inizio e alla fine del testo, poiché svelano l’importanza data da Morante ai suoi illetterati, a quei giovani analfabeti per i quali lei scrive.

Vladimir Nabokov, che sarebbe riduttivo e in certa misura inesatto definire russo, entrò nell’immaginario collettivo grazie alla sua opera più famosa, Lolita, e al successivo adattamento cinematografico realizzato da Stanley Kubrick, come lo scrittore più scandaloso della seconda metà del Novecento. In Lolita è descritto in prima persona il delirio di Humbert Humbert, professore europeo e anarchico, ossessionato sessualmente dalle ninfette, ragazzine in età prepuberale, e insediato dalle provocazioni della dodicenne Lolita. Le tecniche narrative utilizzate nel romanzo, come l’uso della focalizzazione interna e la conseguente possibilità per il lettore di vedere con gli occhi di Humbert, hanno dato vita alla comune convinzione che Lolita fosse coinvolta attivamente nel rapporto con il suo aguzzino. A causa di tale equivoco, non solo i lettori più sprovveduti ma anche numerosi critici e editori hanno giudicato assai negativamente il romanzo di Nabokov per via della continua esaltazione da parte del narratore del suo rapporto amoroso con la ninfetta. Se fu intento dichiarato dell’autore scrivere un’opera che destasse sconcerto, non lo fu certo l’esaltazione o la giustificazione della pedofilia. Nabokov cercò da subito di sciogliere ogni ambiguità rispetto all’intento di Lolita attraverso la prima prefazione, in cui dichiara, attraverso il fittizia identità di John Ray: “Non ho alcuna intenzione di mettere ‘H. H.’ in una luce favorevole. Egli è indubbiamente un individuo ripugnante ed abietto, un fulgido esempio di lebbra morale”. Nelle ultime pagine del romanzo lo stesso H. H. ammette la propria colpa: “Dolores Haze […] privata della sua infanzia da un maniaco”. L’auto-definizione che il protagonista fa di sé indica chiaramente che non fu volere dell’autore lasciare sottintendere una consensualità da parte di Lolita, ma esprimere dall’interno un dato punto di vista, anche se quello di un uomo malato.

In maniera più appartata rispetto a Nabokov, anche Morante inserì le risposte alle accuse dei giornali nel proprio testo. Ella tuttavia lo fece con la riservatezza che caratterizzò la sua vita, senza affidare la risoluzione dello scandalo a prefazioni o alla voce dei suoi personaggi, ma lasciando parlare attraverso gli elementi del paratesto quegli ultimi che furono la materia e i destinatari del suo romanzo, tanto inattuale per contenuti e forma rispetto alle opere coeve della seconda metà del Novecento.

Accanto alla citazione del sopravvissuto di Hiroshima, ne è presente una seconda tratta dal Vangelo secondo Luca: “… hai nascosto queste cose ai dotti e ai savi e le hai rivelate ai piccoli… perché così a te piacque”. Scelto forse perché, tra tutti, il Vangelo di Luca è conosciuto per essere il libro degli oppressi.

Rispetto all’originale, nella trascrizione, dio è stato cancellato dalle due serie di punti di sospensione, a indicare che obiettivo dell’autrice non fu l’esaltazione della cristiana compassione, o al contrario indicare la Storia come una divinità che dall’alto schiaccia le persone comuni, bensì quello di narrare l’epopea dell’umanità senza scopo, senza dio e senza ragione d’essere.

La Storia è sì un romanzo popolare nella scelta dei soggetti raccontati, nell’utilizzo di una lingua semplice, specie nella resa dialogica, e nella volontà di presentare il libro al pubblico direttamente in brossura. Tuttavia, l’assenza di pietismo e di antagonisti capaci di incarnare la crudeltà della Storia rendono quest’opera molto diversa dal romanzo populista al quale è stato accostato.

Morante si propose non di elogiare la piccola gente di cui racconta ma di dialogare con “l’unico pubblico che ormai sia forse capace di ascoltare la parola dei poeti”, quei giovani già protagonisti di Il mondo salvato dai ragazzini. I giovanissimi rappresentano i suoi unici interlocutori. Anch’essi, come gli adulti, portano in sè l’inutilità della propria esistenza, ma in virtù della giovane età non vivono alla ricerca di uno scopo, inutile, ma per la vita stessa. Anche linguisticamente, Morante sceglie di parlare usando il loro linguaggio direttamente, attraverso l’adolescente Nino, scapestrato e incontenibile per forza vitale, ma soprattutto usando la parola incompleta e quasi magica e lo sguardo allucinato dell’infante Useppe, quasi un puer virgiliano, segnato, oltre che da una morte geneticamente inevitabile trasmessagli per via matrilineare, da una nascita senza scopo.

In conclusione, i limes dei capitoli e il paratesto contribuiscono a indirizzare il lettore verso il senso perturbante de La Storia, in cui il mortifero non è nel conflitto bellico, ma nell’atto stesso del venire al mondo.

Il rapporto tra il popolo minuto e insignificante, fatto di vite prive di ogni significato, come lo sono le morti, è il vero protagonista dell’opera: il vero scandalo è invece da ricercarsi  nell’ottusità della Storia.

“Il termine ‘scandaloso’ è spesso soltanto sinonimo di ‘insolito’; e una grande opera d’arte è, naturalmente, sempre originale, e per sua stessa natura non può non risultare scioccante.” (V. Nabokov, prefazione 1955 a Lolita)

 

 

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