I fratelli Cuccoli e l’amare in carne: narcisismo o non-definibilità dell’uomo?

di Marco Antonio D’Aiutolo

 

“Non c’è nulla di definito e definitivo, di assoluto nell’opera della natura e nella vita umana che è parte di essa”. È il punto di vista di Aldo Palazzeschi, espresso attraverso le parole di uno dei suoi personaggi più controversi, Celestino Cuccoli, protagonista de I fratelli Cuccoli. Scritto nel 1948, si tratta di un altro dei suoi grandiosi romanzi, oggetto del presente contributo. Esso si inserisce nella parte della mia rubrica dedicata alla letteratura omosessuale del Novecento italiano, con la guida di Eroe negato di Francesco Gnerre. Ancora una volta, il punto di vista e i personaggi del Palazzeschi si mostrano in linea con gli argomenti di “Esistenze affrancate”.

Il romanzo narra le vicende di uno scapolo, Celestino, e del suo “amare in carne”. “Minerva, io ho bisogno di amare in carne” dice rivolto alla domestica, “l’amore mi soffoca, mi opprime, mi schiaccia, mi uccide, io muoio d’amore, il mio amore è più grande di me”. Questo amore lo spinge ad adottare Sergio, Osvaldo, Renzo e Luigino, quattro ragazzi, i fratelli Cuccoli; lo stesso amore non gli permetterà poi di dormire la notte, in una lotta in cui “lo assorbiva un orgasmo febbrile”, al solo pensiero di quei corpi così giovani presenti sotto il suo stesso tetto. Nulla “poteva impedire al cervello disordinatamente di pensare”. Ma è lo stesso amore per cui, in un “processo di normalizzazione”, come osserva Gnerre, “il desiderio omoerotico del protagonista si sublima…in amore paterno e in una forma di pedagogia amorosa”. Malgrado ciò, né la componente omosessuale, più o meno esplicita, né la carnalità di quell’amore e soprattutto l’anticonformismo dell’autore vengono pregiudicati. Anzi si gioca proprio sulle anomalie del protagonista per avallare l’idea di uomo non-definibile/non-definitivo, affrancato cioè da ogni definizione e definitività.

Se solo si considerasse la descrizione di Celestino, si avrebbe abbastanza materiale da dare spunto alla visione narcisistica proposta dallo psicoterapeuta statunitense Alexander Lowen. Questi, in Narcisismo, definisce il narcisista come una personalità in cui si determina una vera e propria scissione tra autentico sé e immagine dell’io, costruita a posteriori. Il gonfiamento di questa immagine corrisponderebbe al mancato riconoscimento del sé e condurrebbe alla negazione della dimensione affettiva appartenente a quest’ultimo. L’origine di entrambi, dell’io grandioso, quale immagine surrogato che, per eccesso di stima, si considera un “principe azzurro” o un “dio”, e la vulnerabilità e negazione del sé fragile, è da ricercarsi nell’infanzia e nel rapporto con i genitori. In particolare, nell’amore materno: “la madre si rivolge al figlio per avere soddisfazione”, con “l’offerta di un rapporto speciale…che porta una promessa di vicinanza e intimità.” Considerato poi che “il bambino attraversa la fase edipica…l’intimità proposta acquista una sfumatura sessuale.”

È una visione vicina al Celestino di Palazzaschi il quale, dopo la morte di una fanciulla di cui era invaghito da adolescente, si rifugia nell’amore della madre, che da sempre l’aveva voluto tutto per sé: “per colmare – si legge nel romanzo – ella stessa la propria solitudine”. È “un amore avido, tenace, generoso, esclusivo” che, anche se Celestino lo tradurrà in amore paterno, lo farà restare un eterno adolescente. Quell’amore sarà sempre disturbato da quel “bisogno di amare in carne” e dal fatto che, una volta che questa “carne respirava sotto il suo tetto, si muoveva vicina alla sua, lo inquietava da impazzire.” Tutto ciò sembra confermare un’immagine narcisistica dell’io.

Se a questo si aggiungono anche le considerazioni sull’omosessualità di un moralista cattolico, F. Giunchedi, in Eros e Norma. Saggi sulla sessualità e bioetica, il gioco è fatto. Secondo Giunchedi, infatti, le personalità omosessuali si strutturano sulla “ricerca continua di un duplicato di sé”, sì da ridurre le relazioni a un insoddisfacente incontro tra “narcisisti esacerbati e dolorosi”. Le sue teorie poggiano sugli studi di Freud. Questi sostiene che, nella fase edipica, il bambino desidera inconsciamente avere rapporti sessuali con il genitore di sesso opposto e uccidere quello dello stesso sesso, perché rivale. Normalmente, crescendo, il desiderio si risolverebbe nell’identificazione (nel caso del bambino maschio) con il padre e nel transfert del desiderio sessuale su un’altra partner. Mentre per l’omosessuale il complesso edipico resta irrisolto.

A causa della forte incidenza dell’amore materno che esaspera l’attrazione sessuale e che resta inappagata, egli ricerca soddisfazione in un duplicato di sé: qualcuno da “amare” allo stesso modo con cui desiderava d’essere amato dalla propria madre. Per questa ragione, il desiderio omosessuale sarebbe una tendenza compulsiva a ottenere ciò che è mancato nella relazione materna, mediante un atto sessuale doloroso, come la penetrazione, che serve ad attutire il senso di colpa dovuto al desiderio stesso di incesto e parricidio. Ma è davvero ciò che Palazzeschi sta mettendo in scena in I fratelli Cuccoli? Molto probabilmente egli conosceva bene le ricerche psicoanalitiche, in voga all’epoca, soprattutto quelle freudiane e forse ha giocato su di esse con la sua tipica ironia e irriverenza. Ma se così non fosse, rimane che in questo romanzo (come negli altri) l’autore offre una visione dell’uomo che scardina ogni sistema ideologico in cui si tende a circoscriverlo e che è sotteso alle teorie sopra enunciate.

Alla base dell’idea di uomo di Lowen, ben espressa nel suo contributo (carico, sia chiaro, di ottime intuizioni), c’è una visione di persona che supera la semplice analisi psicoanalitica. Il concetto di sé proposto, legato al sentire corporeo, pare essere originario e già codificato, distinto da un io ridotto solo a immagine artificiale. È mio avviso che tale distinzione sia affetta da ciò che Umberto Galimberti, in Il corpo, definisce errore metodologico, antropologico e ontologico, attribuito al sentimento occidentale e che è alla base della nascita della psicoanalisi: il dualismo anima/psiche-corpo di origine platonica.

La prima è centro di valore unitario e il secondo, svalutato a prigione da cui liberarsi, viene ridotto a mero organismo. Affetta da tale dualismo la psicanalisi punterebbe l’attenzione solo sulla psiche da salvare, trascurando il corpo. In Lowen, invece, la corporeità viene rivalutata, ma a danno dell’io, la cui immagine, per essere sana, deve conformarsi al sé (corporeo). Il dualismo però non viene meno. Per ciò che concerne Giunchedi, la sua visione antropologica è esplicitamente quella proposta dalla Chiesa cattolica, secondo la quale l’amore etero è l’unico a essere normativo (progetto di Dio). In base a esso si definisce l’uomo e si valuta negativamente (come disturbo e/o peccato) tutto ciò che non vi rientra.

A queste posizioni, Palazzeschi contrappone la propria. Nel romanzo compaiono due figure: una lesbica e un gay. Di essi, qualcuno osserva che la confusione dei sessi è irritabile e che maschio e femmina sono “ben definiti e definitivi.” Per Gnerre, è un pretesto affinché Palazzeschi “possa esplicare un punto di vista diverso” e far dire a Celestino che nulla di “definito e definitivo” c’è nell’uomo, neanche il suo sé. “Codeste divisioni fatte con l’ascia, rappresentano una violenza, una tirannia”.“La mia religiosità mi spinge a giudicare con la massima cautela e il maggior rispetto tutto quello che è diverso da me”. A chi vorrebbe obiettare che si tratta di un semplice romanzo, va detto che dietro di esso c’è comunque il pensiero di un uomo, che muove, tra l’altro, dall’esperienza personale. Forse quest’ultima ha meno valore della scienza? Non è forse vero che un romanzo sia capace, più della scienza, di comprendere e descrivere la vita umana e la sua dimensione affettiva nella loro interezza, senza riduzioni o dualismi?

Bisognerebbe poi intendersi sul concetto di scientificità e oggettività e su ciò che invece è un mero tentativo di avallare una propria visione delle cose, dell’uomo o addirittura l’asservimento al sistema culturale dominante. Basterebbe far nostro un rimprovero mosso da Nietzsche ai cosiddetti filosofi della morale: “Quella che i filosofi chiamano ‘fondamento della morale’ e pretendono da se stessi, era, vista nella sua giusta luce, soltanto una forma dotta della loro tranquilla fede nella morale dominante”; “moralità del loro ambiente, del loro ceto, della loro chiesa, dello spirito del loro tempo, del loro clima e della loro parte del mondo.” È comprensibile allora il giudizio negativo del filosofo tedesco su “ogni morale [che] è…una buona dose di tirannia contro la ‘natura’ e anche contro la ‘ragione’”. Ma se e solo se – aggiungerei – essa sia al servizio di un sistema che nega l’uomo (l’uomo non esiste) e sia priva di uno sguardo sincero e genuino sulla vita di quest’ultimo.

Per cui, come suggerisce Galimberti: “Evitando di sovraccaricare l’esistente di una struttura teorica a lui estranea, per lasciare che si imponga all’evidenza così come esso è, ciò che appare non saranno le sue ‘carenze’ o i suoi ‘eccessi’, ma i suoi modi di essere che, là dove la presenza non è pre-codificata, non si riveleranno come dis-funzioni, ma semplicemente come funzioni di una certa strutturazione della presenza, ossia di un certo modo di ‘essere-nel-mondo’ per progettare un mondo.” Ed è ciò che, a mio avviso, ha fatto Palazzeschi. Egli, in I fratelli Cuccoli, e in tutta la sua opera, presenta l’uomo, anzi gli uomini, senza veli. Non con un sé preesistente e codificato, ma nel suo strutturarsi, nelle sue funzioni e quale presenza-nel-mondo, nella sua ricchezza esistenziale che comprende anche la sessualità o, come oggi viene definita, la pansessualità. È in questo senso che, ancora una volta, l’opera di Palazzeschi si mostra esempio di esistenza affrancata.

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