No babies, thanks! (seconda parte)

La prima parte del presente contributo è leggibile al seguente link: http://www.rivistamilena.it/2017/09/18/no-babies-thanks-prima-parte/. La terza e ultima parte verrà pubblicata lunedì 2 ottobre.

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di Eliana Petrizzi

3. Franca viene ogni tanto a trovarmi. Ruba pochi minuti alla scuola, alla suocera, alle maestre dei figli, e soprattutto ai figli. Dice che da me si sente al sicuro come in trincea. Le ho fatto capire che mi sta benissimo che venga da sola, senza dover trascorrere il poco tempo che abbiamo a controllare le impronte che i piccoli lasciano sui muri, o a sistemare gli oggetti che afferrano e scaraventano per terra. I figli, per Franca come per tutte le mie amiche, sono un pericolo da scampare. Arriva da me coi capelli scomposti, chiude la porta, riprende fiato, mi chiede una tisana, stordita come un uccello che, cercando l’aperto, sbatte contro i vetri chiusi. I pochi minuti che si è dedicata non bastano a volte nemmeno a descrivermi come sta; non lei come madre, ma lei come donna, come amica, come compagna. Lo sa in fondo cosa vuole? Le pare di no. Questa settimana, il massimo che è riuscita a ricavare per se stessa è stata una mezz’ora seduta sul water, chiusa a chiave fingendo un mal di pancia, per leggere Marie Claire. Quando Franca va via, io sono felice di non essere lei. La mattina mi sveglio quando si aprono gli occhi. Alle sette prendo la bicicletta e me ne vado per strade di campagna. Quando rientro, la mia vicina già urla da un’ora contro Michela che piange senza ragione, contro Claudia che non è pronta per la scuola, contro il marito che, dice lei, è così inutile che se morisse all’improvviso non se ne accorgerebbe nessuno. Santa singletudine.

4. Pensando a una forma possibile di immortalità, provo invidia per i grandi artisti. Ieri sera ho letto Seneca. Morto da secoli, di lui non restano neppure le ossa. Nessuno lo ha mai visto in faccia. Eppure, quando lo leggo il suo pensiero si rigenera, come se quelle idee fossero state appena pensate. Mi raggiungono, dialogano con la mia vita, la supportano, offrendo soluzioni in forma di domande. Ho scelto un modo diverso di dare il mio tributo al breve miracolo di esistere. Scrivo, dipingo, sebbene non abbia mai definito quadri e scritture ‘figli miei’. Una volta ultimato, un dipinto deve andare lontano, perché se non attecchisce altrove è un seme abortito. Un figlio pensa, reagisce alle cose della vita, produce valore, partecipa alle trasformazioni del mondo. Soprattutto, come tutti gli esseri viventi, è imprevedibile.

L’opera d’arte è più gentile, ti apre dei varchi e ti invita ad andare avanti. Un figlio questo lo pretende. Un figlio è un dovere assoluto al progetto.
Io figli non ne voglio, ma tutta la vita vorrò creare qualcosa che possa avere una voce più forte di questo piccolo corpo che passa; qualcosa in cui, dimenticata chi sarò stata nome e cognome, ciascuno possa incontrare chi avrà creduto di essere o sperato di diventare.

5. Vado a cena fuori con una coppia di amici che non vedo da tempo. La prima brutta sorpresa è che Clara, la loro bimba di quattro anni, è seduta tra mamma e papà sul sedile posteriore, in piedi con le scarpe sulla tappezzeria in alcantara bianca. Per tutto il viaggio, durato circa un’ora, è stata con l’I-Pad in mano, aiutata dal padre a scaricare da You-Tube video incomprensibili, da cui non arrivavano che schiamazzi, suoni striduli e violenti. Non sono riuscita a nascondere il mio disappunto, io che detesto il chiasso e persino la radio accesa in macchina, preferendo a canzoni che non posso scegliere il piacere della conversazione. Mi ha sorpresa il padre, che ha speso un sincero interesse per tutto ciò che accadeva in quei video, senza mai chiedersi se per caso il volume così alto potesse darci fastidio, o se a un certo punto non fosse il caso di spegnerlo per chiacchierare un po’ con noi, visto che non ci incontravamo da mesi. Poco dopo la madre ha ricevuto una telefonata, forse un invito a pranzo per il giorno dopo, che ha declinato inventandosi prontamente una febbre di Clara, la quale, ovviamente e purtroppo, sta bene. Inutile dire che per tutta la serata non si è potuto discorrere di niente se non di Clara. Fatti del genere si verificano ogni volta che mi trovo in presenza di adulti con bambini. Durante queste serate la lotta è impari. Se non hai figli resti in disparte, annuisci e sorridi per i primi minuti, fingendo di capire di cosa si sta parlando. Poi lo sguardo si distrae, guardi l’orologio sempre più spesso, mandi un sms al tuo compagno chiedendogli di chiamarti all’istante, fingendo un impegno di cui ti eri dimenticata. La casa degli amici più cari diventa un bunker da cui progettare la fuga con la dovuta scaltrezza. Ma è possibile che la gioia che i genitori provano nel raccontare ogni minimo progresso del loro bimbo non faccia mai temere loro di non procurarne affatto in chi li ascolta? I genitori di figli molto piccoli precipitano in una forma di demenza esulcerante, che li porta a parlare con voci da cartone animato, a squittire per ogni minimo gesto dell’infante, a provare tenerezza al suono del ruttino, addirittura compiacimento per la sua cacca che, ti ripetono, non puzza e non sporca, perché ‘la cacca dei bimbi è santa’. Se inizi una conversazione, dopo pochi minuti eccoli illustrarti tutti i progressi della sua crescita: ti dicono che se lo chiami già si volta, che è in grado di riconoscere questo e quello, soprattutto che è molto in avanti rispetto ai bimbi della sua età (dicono tutti così). Ti mostrano la foto scattata col cellulare ad un’ora appena dalla nascita. Quello che per loro è l’essere più adorabile del mondo, a te – immune dall’affetto miope di un genitore – appare per ciò che è un neonato: una creatura il più delle volte mostruosa. Oppure ti costringono a sorbirti il video del suo primo compleanno, con tutto il contorno di cantilene, applausi, schiamazzi, versi animali, palloncini e giocattoli, da cui non si esce vivi. Sì, perché se prima di diventare genitori i tuoi amici ti ricevevano in un salotto arredato con gusto, adesso ogni spazio è diventato la stanza giochi dell’invasore: puzzle sparsi dappertutto, diorami, castelli di mostri, gru, escavatrici, trattori, camion, auto di tutte le epoche e cilindrate, bambole, costruzioni, animali preistorici, carillon con voci in tutte le lingue; insomma, tutto quanto può servire al bambino per annoiarlo, confonderlo e indurlo a desiderare cose sempre più inutili. Ovviamente Livia e Paolo, i genitori, non sono più gli stessi. Dall’avvento dell’infante sono invecchiati di dieci anni, e hanno cessato di esistere come coppia. Il piccolo ha attentato al corpo di lei e all’alopecia di lui, succhiando a entrambi ogni energia, ogni spazio disponibile, ogni tempo pensabile. Ancora prima che nascesse, sono caduti in un letargo sessuale fatto di prudenza e di paura, o più semplicemente di un lutto del desiderio a tempo indeterminato. Ma tutto si sopporta, pare, per amore di un figlio.

Gibran diceva che un figlio è una freccia lanciata nell’infinito. Domando alle madri: se sapeste per certo che, come accade tra gli animali, vostro figlio vi lascerà presto e per sempre senza più nemmeno riconoscervi, ne mettereste al mondo uno con tanto slancio?

Un pensiero riguardo “No babies, thanks! (seconda parte)

  • 28 settembre 2017 in 14:05
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    Quello che le donne non dicono.

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