Le clandestine*

di Marco Antonio D’Aiutolo

Io sono come un negro in una società razzista
che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante.
Sono, cioè, un tollerato.
(Pier Paolo Pasolini)

«Che, siete voi le signore che hanno presentato ‘a domanda di sanatoria pe’ colf e badanti?» ci chiede quel tizio goffo e tarchiato dello Sportello Unico senza neppure sollevare il capo. «’A domanda è stata inoltrata il due der mese scorso?» continua affondando sempre di più il suo doppio mento nel colletto della camicia consumata e tenendo lo sguardo perso tra le carte e i suoi occhiali a fondo di bottiglia.

«’A domanda è stata accettata perché i requisiti della documentazione risultano in regola ai sensi de la Legge centoddue der tre agosto ddumila e nove» aggiunge, infine, stanco e svogliato ancora piegato su quelle scartoffie.

Se non fosse per quell’accento così sfacciatamente romanesco, nulla di familiare renderebbe meno angosciante questi attimi.

«Prego favorire i documenti di identità» dichiara.

Ecco una richiesta dal sapore disumano! Perché quando l’hai sentita pronunciare, almeno una volta nella vita, da individui che non comprendono la costitutiva relazione tra autorità e cortesia ti sembra quasi di accusare un arresto cardiaco. Non del cuore fisico, no, bensì di quello più intimo del tuo animo. Non è forse questa l’impressione che fa l’abuso di potere?

Il tipo strano allo Sportello Unico si lecca quei suoi baffoni grigi e chiede:

«Il nome della datrice di lavoro, grazie?»

«Di nazionalità italiana?»

Sembrerebbe di sì!

«Anni?»

«Coniugata?»

Coniugata! Coniugata?

Non è stato proprio con mio marito quando l’ho incontrato in quella luminosa sala da ballo sul lungomare di Ladispoli? Fu in una di quelle occasioni in cui tentammo di trascorrere una serata diversa, con la speranza di alleggerire la gravosità dei nostri anni sterili di matrimonio. Era stata più un’idea sua che mia. Incapace di muovere un passo di danza, lo costrinsi a tenermi compagnia, impalati a lungo al lato della sala, tra le calde luci e le musiche latine, urtati da ballerini focosi incuranti di chiunque incontrassero sui loro passi. Fu lei la prima ad avvicinarsi. Lei afferrò mio marito e lo trascinò in sala, con la gentilezza irruenta tipica delle cubane. Mio marito? Oh sì, lui sì che sapeva ballare. Era meno sensuale di lei nei movimenti, certo, ma credetti possibile, nel vederlo lì, in mezzo agli altri, imbarazzato e audace, di innamorarmene ancora una volta. Poi lei mi salutò con il suo italiano mal masticato e si trattenne in nostra compagnia, chiacchierando fino a tardi con quella sua particolare cadenza castigliana.

«Nazionalità?»

«Da quanto tempo vive in Italia?»

Grottesco il suono di quelle parole. Stridenti per le orecchie di una donna che aveva già dovuto rispondere a quelle domande, più di una volta e una volta in più di troppo. Dinanzi a cyborg in divisa, anche loro con gli occhi bassi e indifferenti, nascosti sotto quell’enorme berretto da uniforme. Arroganti di un’autorità senza cortesia.

Di nazionalità cubana! Je! Per quel che mi resta!

In Italia?

Solita domanda de todos.

Da poco. Da troppo.

Solo so que ha passato mucho tiempo.

Que tonderia!

Non v’ero forse giunta per fuggire? Da cosa poi? Da chi? Per chi? ¿ Por quien? Per cosa? Forse per una libertad de oltreoceano? Con la convinzione di trovare la libertad. Cosa bella per chi ce l’ha e non lo sa.

Quando guardavo dalla mia terra verso il mare, quella linea d’orizzonte que si nascondeva dietro al Faro, pregavo siempre la mia Virgensitea de regla di concedermi il permesso di oltrepassarla. Con la promessa della libertad. E mientras pensaba que gli italiani fossero veramente il popolo della libertà, finii invece por estar sola con la mia incapacità di poterme esprimere y con un’unica bolsa di poesie nel cuore e di passi di ballo nelle gambe.

İ Madre de Dios!

Notti trascorse sveglia. Mal di pancia. El pensiero de mi gente, de mi tierra.

Piangendo!

Sapevo que non potevo più tornarci, non potevo più rivederli.

Non più como prima. Ma esiste forse el diritto per una donna di pretendere per sé di non restare per sempre ai margini del mondo? ¿Para siempre?

E quell’essere tondo, inchiodato su quella seggiola dello Sportello Unico, con la sua solita inerzia e la sua bic, appunta tutto su quei fogli sgualciti como sgualcite sono la camicia grigia e la faccia tonda.

«Dunque sono loro la datrice di lavoro e la colf?» prende la parola lo stoccafisso piantato alle spalle di quella figura goffa. L’impiegato dell’INPS s’è espresso con un misto di noia e alterigia che lo rende ancora meno amichevole del primo.

Datrice e colf! Che strane tipologie sociali! Non potrebbero acquisire un significato proprio nella vita delle persone, diverso da quello comunemente attribuitogli? In fondo siamo o non siamo noi a dare senso e valore alle cose? E se poi queste cose nascono dal tessersi di una relazione o di una rete di relazioni, il significato che ad esse si dà non risulta più incisivo?

La seconda volta ci incontrammo a Colle Oppio, tra i profumi dell’alloro e delle mura antiche con i loro ciuffi di capperi selvatici. Alle nostre spalle la grande strada con i suoi mastodontici simboli dell’italianità e la loro storia di glorie e di vanaglorie. Avremmo dovuto fare una lezione di ballo, ma preferimmo passeggiare fino a piazza Venezia e prendere un caffè sedute dirimpetto al Palazzo delle vanità virili.

«Conferma quanto è qui indicato circa il suo reddito?» riprese l’impiegato pallido e gracile senza batter ciglio, senza piegarsi, ma restando fisso ed eretto come chi è costretto da una mazza di scopa conficcata nel culo.

«Lei è al servizio in casa della signora da marzo?»

«Lo conferma?»

Da marzo? Da dicembre? Da Settembre? Quel giorno de autunno, lungo la via dei Fori imperiali, è stato il mio primo giorno de libertad. È stata in quella mattina tiepida y calma que per la prima volta ho smesso, per un attimo, di sentirmi una straniera clandestina, per essere finalmente en mi casa. Le ore che trascorrevamo a conversare, dopo le lezioni, ci hanno fatto scoprire mujeres. Due donne senza confini o differenze. Ci ha sorprendito la coscienza de la nostra identitad. I sentimenti guardano forse la nazionalità o il colore della pelle? Eppure l’intreccio dei nostri corpi nei movimenti sinuosi dei balli latini ci univano senza confondere quella diversa pigmentazione. Ben consapevoli que quello sporco mondaccio con i suoi ordinamenti e le sue istituzioni, fuori da quella palestra, era contro di noi. Ma non eravamo forse noi il mondo in quel momento?

«Favorisca i documenti!» mi ha detto, quella volta, el pubblico ufficiale. Con lo stesso tono di quelli que adesso sono dietro lo Sportello Unico. Scocciato y infastidito.

«Mi dica il suo nome, avanti!» mi ha gruňito quella noche in quell’ufficio illuminato da una tiepida luce y dall’aria asfissiante.

«Come scusi? Me lo può ripetere?» ha continuato mescolando parole a suoni maleducati di un tossire accatarrato.

Solo el teclar…come si dici in italiano? El tic tic tic della macchina da scrivere y dell’orologio al muro scandivano il peso di quelle ore umilianti del mal interrogatorio. Mentre miravo i simpatici quadretti della repubblica y el Cristo alle spalle del official encaregado ho smesso in un attimo di sentirmi persona, donna, cubana. Solo un’anonima negra, sola nella mia illegalidad.

Siamo sedute già da un bel po’ dinanzi a quelle due figure dello Sportello Unico. Irrigidite su quelle seggiole fredde, ansiose di regolarizzare le nostre lezioni di ballo e le nostre conversazioni.

Sento il bisogno di essere regolarizzata anch’io. Perché clandestina, come te, lo sono anch’io. E questo status senza stato mi colse proprio lì, improvviso come un temporale estivo, tra i tavolini di quel caffè di Piazza Venezia. Eravamo e stiamo entrambe due clandestine. Entrambe apparteniamo allo stesso popolo di clandestini. Un popolo che porta su di sé l’odio dei popoli, che s’atteggia, sa come atteggiarsi nell’anonimato. Convinto di potere, un giorno, conquistare il proprio posto, di essere riconosciuto della propria presenza, della propria esistenza.

«Mi scusi, signora, ma qui non è stato specificato che adesso lei è provvista di monoreddito!» fa notare l’impiegatuccio sempre ritto nel suo corpo sottile e con la pelle flaccida della faccia.

«Lei è separata, diceva?»

«Vive con sua madre?»

«Ah ecco! Ora è chiaro. Ci scusi per l’equivoco!»

Ancora si scusano per i loro equivoci? Non sanno fare altro che equivocare e scusarsi. Vero?

Troppo buoni! Ma non mi bastano le loro scuse a recuperare la mia personalità umiliata. Non me sirven a nada. Come non mi hanno servito a nada le scuse della questura! Sono rimasta una clandestina anonima che denunciato il suo aggressore fui denunciata di ilegalidad y umiliata nella propria dignidad.

Quanto ancora dobbiamo tollerare la vostra tolleranza?

Che succede?

I due dello Sportello Unico si sono messi a confabulare l’uno all’orecchio dell’altro. Che vogliono?

A un tratto, senza preavviso alcuno, stringendo tra le loro mani un pezzo di carta, il permesso di soggiorno, si rivolgono a noi con un sorriso strano  e annunciano.

«Vi dichiariamo datrice e colf!»

Restiamo allibite!

Ma perché sorprendersi? Non è forse questa la dichiarazione giusta? Non è forse questa espressione la più esatta a definire il nostro gesto d’unione?

Non è questo il motivo per cui quella sera nel locale di Ladispoli io ho ballato por tì?

Non è questa la ragione per la quale ho cambiato il senso e l’ordine della mia vita, lasciando mio marito?

Non è forse questa la forza che ci ha reso donne contro ogni negazione?

Questa dichiarazione non fa che altro che avallare la nostra relazione d’amore che si sforza di vivere la clandestinità anonima in cui castigano ed è inoltre pietra di scandalo per ogni ordinamento ordinato. Se per noi non c’è alcun istituto che ci socializza, allora siamo noi che diamo significazione pure a questa pagliacciata all’italiana della sanatoria.

Appena ci vedono comparire fuori dall’ufficio, tutti i nostri cari ci accolgono con pasticcini, confetti e spumante, sotto una pioggerellina di riso. Mentre si avvicina mia madre che, con le lacrime agli occhi, ci fa: «Tanti auguri, belle de mamma!».

Al mio amante, amico, eroe
Irahin F.M.
con il quale resto e resterò sempre unito e libero
*Per gentile concessione della casa editrice “Edizioni Croce”

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