Dario Argento, Suspiria e il sogno di quella factory horror: macchina da presa, immaginazione e follia

di Ezio Azzollini

La fila, fin dalle otto del mattino, fuori dal teatro, è lunghissima. È per guardare un film di quarant’anni fa. E i giovanissimi, dentro quella fila, sono tanti. Diverse le spiegazioni dell’arcano: la prima è che magari non capita spesso di assistere a un film liberty tra i più grandi di sempre, dentro un teatro liberty tra i più belli d’Italia. La seconda è che questo film di quarant’anni fa, quarant’anni non li ha neanche per sogno.

Arriva Suspiria in versione restaurata in 4K al Teatro Petruzzelli di Bari, e il Bif&st si tinge di rosso. Rosso sangue, rosso della tappezzeria damascata della mitologica Tanz Akademie di Friburgo, che curiosamente è simile a quella dei palchetti del teatro pugliese. Che pulsa ancora tra i ragazzi della platea, a distanza di quarant’anni, a ogni fendente di lama, ad ogni nota dei Goblin, ad ogni smorfia di tensione tinta dalle gelatine, anzi dalle stoffe colorate messe da Luciano Tovoli nel 1977 davanti alle luci per illuminare questo film che fece impazzire il mondo.

Il mondo, più che l’Italia. Il perché, tanti anni dopo, Dario Argento lo spiega incalzato da Maurizio De Rienzo nel corso della masterclass successiva alla proiezione: “Me lo chiedevo, perché all’estero fosse esploso Suspiria, rispetto a Profondo Rosso, che aveva colpito più gli italiani. Poi ho cominciato a capire. Profondo Rosso è legato a certi vizi italiani, Suspiria dà lo sfogo alla fantasia e alla pazzia assolute. Tutto è un crescendo fino al parossismo, fin dall’inizio: l’arrivo in aeroporto, il temporale spaventoso, l’accademia, è un crescendo fino alla pazzia. Era una sfida che mi sono dato, e che penso di aver vinto. Questa stranezza, questa bizzarria hanno decretato il successo mondiale. In Giappone prese i diritti la Sony, la prima la fecero dentro un piccolo stadio, con un impianto stereo impressionante. Fu un successo enorme, in Giappone Profondo Rosso non era ancora stato proiettato, e in seguito venne distribuito con il titolo di Suspiria 2. Da ricordare anche la prima francese: “Tanti ragazzi, giovanissimi. S’erano portati i botti dentro la sala, e ogni tanto sul più bello li facevano esplodere”.

In crescendo è stato anche il suo passaggio dal cinema raccontato a quello realizzato. Della sua storia da critico cinematografico per Paese Sera, oggi Dario Argento racconta “le liti con il direttore, per il quale le mie critiche erano sbagliate. Amavo certi film e lo dicevo, il cinema cosiddetto d’impegno a me non interessava molto”. Poi il passaggio creativo alla sceneggiatura, “pochi film ma uno importante, C’era una volta il West fu una svolta nella mia carriera. Il mio cinema non c’entra nulla con quello di Sergio Leone, ma con lui capii cos’è il cinema: macchina da presa, immaginazione, follia. Capii, se avessi dovuto fare il regista, come avrei dovuto farlo”.

Dario Argento al Bif&st di Bari

Poi l’esordio, con Luccello dalle piume di cristallo: «Lo scrissi, e mi venne l’idea di farlo io». Quando gli chiedono la genesi d’un titolo del genere, tanto riuscito da aprire la trilogia degli animali, e non certo concepito una mattina appena sveglio, il regista romano risponde: «No, è proprio che la mattina mi sono svegliato e m’è venuto in mente. Profondo Rosso m’è venuto in mente mentre ero in macchina, Suspiria leggendo un libro. Suspiria all’estero non vuol dire niente, però piace».

La carrellata di donne nel suo cinema parte dal principio, e ogni volta è un omaggio a sua madre, fotografa: “La donna è importante, quasi in tutti i miei film la protagonista è una donna. Mia madre mi ha fatto capire cos’è mettere le luci su un corpo, e metterci le ombre”. Poi il racconto di quelle attrici agée, portate nel suo cinema, apparentemente distante dalle loro corde, a cominciare dalla grandissima Clara Calamai in Profondo Rosso, anni dopo essersi ritirata dalle scene: “Quella ormai è ricca, figurati se ha voglia di far cinema, pensavo. Andai a casa sua, e c’era una vodka al peperoncino che continuava a offrirmi, e che lei beveva come fosse acqua. Poi Joan Bennett in Suspiria: anche per lei andai a casa sua, una casa meravigliosa sulla Quinta Strada a New York. Anche lei beveva. Era stata la donna di Fritz Lang, il mio idolo, la presi perché speravo mi raccontasse qualcosa di lui. Te lo racconterò, te lo racconterò, mi diceva. Finì il film e non mi raccontò nulla”. E poi, ancora in Suspiria, Alida Valli: «Bella, perfetta, con quel sorriso da nazista. Lei bella, educata, gentile. Non beveva».

Curioso anche il ricordo di un interprete maschile, il primo, Tony Musante: “Mi voleva menare. Con L’uccello dalle piume di cristallo ero all’esordio. Lui era convinto per questo motivo di potermi dire cosa fare, e litigammo dalla prima inquadratura. Finito il film, venne a casa mia, credo proprio per menarmi. Bussava e non aprivo. Facciamo che sono al cinema, pensai, e non aprivo. Restai a guardare all’occhio magico dietro al porta, finché non se ne andò”.

E anche se lui è ancora uno capace di chiamare lo spioncino occhio magico, lo sguardo al futuro c’è. A quello che era il futuro già un tempo, ma non ha poi mantenuto appieno le promesse: quei registi tenuti a battesimo o a braccetto, da Romero a Soavi a Lamberto Bava, che divennero quasi un circolo degli amici. “No. Una factory”, ci tiene a precisare, raccontando dell’amicizia con John Carpenter, o quella con Tobe Hooper e William Friedkin. E il futuro del film di genere oggi gli sembra non tanto nelle serie tv, che confessa di guardare distrattamente quanto “nel cinema orientale: Giappone, Sud Corea, Hong Kong, hanno sguardi interessanti. O quello del cinema messicano, o sudamericano: Brasile, Argentina. Sono interessanti per le implicazioni psicologiche, senza le quali il genere dell’orrore è solo una successione di sequenze splatter”. Insomma, non in America né in Europa. Meno che meno in Italia: “I film di genere costano abbastanza rispetto a commedia che si girano in una stanza e finiscono. La strada della commedia è diventata una strada senza ritorno. Non volevano far paura, volevano che la gente ridesse”. E non ci sono neanche troppo riusciti.

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