La seconda natura di Mario Visone: uno stadio in fuga dalla solitudine

“La solitudine è la poca libertà che mi posso concedere”

Mario Visone, La seconda natura

 

 

Il sorvegliante di uno stazionamento di pullman, una ragazza che adotta il sesso a mo’ di strumento ritorsivo, una insegnante che nel tempo libero distribuisce alimenti in un centro per donne maltrattate e il custode di un istituto scolastico, solito a imitare le scene dei film, formano il quadrato in cui un labirinto dalle pareti invisibili distribuisce vie di fuga e punti ciechi alla loro ossessionata necessità di percorrerlo alla ricerca dell’uscita. È l’impianto de La seconda natura, il romanzo di Mario Visone edito da Homo Scrivens nella collana Direzioni immaginarie.

Il titolo del libro, in concordanza con i contenuti della sua narrazione, si ispira al lungo e tormentato dibattito filosofico intorno al concetto di “seconda natura”, tipico di sentieri analitici di filosofi come Aristotele, Hegel e McDowell, soltanto per citarne alcuni. L’uomo non può farsi bastare l’intersoggettività e la relazione con se stesso e con altri uomini per poter aspirare a una descrizione profonda di sé. Il rapporto con gli oggetti inanimati diventa un additivo indispensabile per completare i processi di speculazione rivolti alle radiografie dell’identità umana, al cospetto di quell’ordine sovraordinato che s’identifica in un concetto di natura che proprio Hegel definisce come “data all’uomo come un problema, alla cui soluzione egli si sente altrettanto attratto, quanto ne viene respinto”.

Le quattro vite del romanzo di Visone adempiono, quasi in misura volontaria, cosciente, in perlustrazione, a questa normativa complementare di una sorta di statuto che regola l’uomo come razionale e integrato all’interno di forme comunitarie. Dentro una cittadina che agli occhi del lettore si spoglia di se stessa, in una rappresentazione de-urbanizzata, si muovono quattro figure che si sdoppiano in esecuzioni alternative a quelle dell’apparenza quotidiana, attraverso eventi ricorrenti e metafisici, che, in un grande paradosso, lanciano allarmi e sos di una pedagogia reclusa, aliena dalle istruttorie delle sovrastrutture convenzionali di una realtà sociale dalla quale fuggono, manifestandosi, quando inevitabile, senza riserve, anche a costo di fronteggiare il rischio di corti circuiti con chi invece di realtà ne vive una soltanto. Come nell’episodio in cui una madre che si reca a prelevare suo figlio a scuola non comprende le sollecitazioni emotive che il custode è stato in grado di dargli tramite un momento di condivisione all’interno di una lezione voluta dall’insegnante. Episodio in cui, oltre a verificare quanto questa madre in quel momento viva la filiazione come un campo di battaglia, il privilegio della vanità rischia di verificarsi anche a prezzo del sacrificio emotivo di un figlio. Così, poco a poco, ognuno dei protagonisti esegue la sua fuga, completando l’ingresso alla seconda natura anche attraverso negazioni e disapprovazioni in uno schema che relativizza il rapporto tra somma e sottrazione.

“Non prestava attenzione a nulla. Non vedeva la luce primula volare tra i palazzi e i semi germogliare lungo la via mescolandosi alla malasorte delle erbacce. Non salutava le serrande appena alzate del fornaio e tutte le finestre ancora chiuse che disegnavano il piano terra. Non fischiettava alcun motivetto irriconoscibile e non arricciava il naso per annusare il sano odore di una tazza di fiocchi d’orzo.”

I protagonisti della natura di Visone fanno della loro stessa corporeità l’oggetto interlocutorio della loro spiritualità. L’avvicinamento alla seconda natura avviene attraverso l’ossessione del passo, della sua esecuzione attraverso l’armonioso, ripetitivo, sincronizzato, movimento delle gambe e dei piedi, più volte sottolineato nella narrazione dell’autore. L’eclissi, immagine altrettanto ricorrente, ora esternamente, nella descrizione suggestiva di uno dei protagonisti agli allievi di un’insegnante decisa ad avvalersi del suo aiuto, ora intimamente, fino alla linea di confine tra il giorno e la notte, laddove diurno e notturno manomettono la memoria onirica.

“Si consuma ogni mattina. In quella confusa eternità tra la veglia e il sonno, in cui dimentichi quello che hai sognato”

Il testo di Visone, tra un quadro narrativo e l’altro, lascia aperte le porte alle incursioni della storia della filosofia, probabilmente in assistenza alla seconda voce fuori campo, che pare tracciare un parallelo a quella narrante, di tanto in tanto soccombente più a un via libera incondizionato dei flussi di coscienza che all’armonizzazione della struttura narrativa, come se il dire dovesse inevitabilmente prevalere su un raccontare affidato alla costante ricerca di un immaginario potente e suggestivo. Dei personaggi de La seconda natura di Mario Visone resta soprattutto la loro relazione con la paura. Ricerca, pratica e fuga da quello stadio – forse intermedio? – vissuto in pena, in certi casi orientata in altri smarrita, di approssimazione a una soggettività che fa esperienza di sé e del mondo circostante attraverso strumenti percettivi che “realizzano” lo spirito.

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