“Donne maledette” di Mariagrazia De Castro: dell’ipocrisia borghese, in una mancata esistenza

di Claudia Malafronte

“Un uomo si affiderebbe a un medico per guarire. Una donna si consegna alla scrittura”. È in questa sentenza lapidaria e definitiva che Mariagrazia De Castro, docente universitaria e scrittrice “sostenibile”, consegna al lettore la chiave di lettura della sua ultima opera, Donne Maledette edito dalla Milena Edizioni, seconda prova di racconto al femminile dopo Donne rurali (edizioni Altravista). La scrittura, infatti, viene vissuta da Sylvie, protagonista e voce narrante, come terapia per una ferita mai rimarginata: la perdita dei genitori, morti prematuramente per la Grande Influenza nel 1919. Ecco, quindi, che l’elaborazione e la comprensione del dolore passa attraverso la parola scritta, sua unica compagna negli anni del convento di Besançon insieme ai suoi amati libri. Ma la scrittura, per Sylvie, diventa anche lo strumento di decodifica della realtà e l’analisi dell’oggetto del suo “studio sociale”, nonché tema dominante dell’opera: il rapporto tra uomo e donna nella società borghese agli albori dell’emancipazione femminile, tema che la protagonista osserva dall’esterno, descrivendo con tagliente lucidità il matrimonio infelice della sorella maggiore, Charlotte, la cui energia vitale sembra risucchiata nel vortice di un’esistenza che non le appartiene e che la condanna all’avvizzimento precoce di un’ anima mutilata.

Ambientato nella Parigi di inizio Novecento, traboccante di artisti, di boulevards rutilanti e di caffè affollati e pieni di fumo, Donne Maledette ci restituisce il ritratto impietoso e ironico di quella bourgeoisie ipocrita e bigotta che guarda scandalizzata alla rive gauche e a Montmartre, salvo custodire gelosamente sotto tappeti sontuosi la polvere dorata della propria putente putredine. La sorte che era riservata alle donne in tale società è icasticamente descritta dalla stessa De Castro: “Bastava un buon matrimonio, uno di quelli in cui non si litigava mai. Per convenienza si accettava un marito qualsiasi, anche rozzo e corpulento, pur di avere assicurato un certo tenore di vita e una certa posizione sociale. In fondo, il prezzo da pagare era solo una vita coniugale senza problemi, mentre l’amore, si sa, avrebbe causato solo guai”. Eppure Sylvie non si consegna alle sirene del disincanto e del cinismo, stilemi tanto cari quanto vuoti del mondo borghese ormai in disfacimento. Ascolta altre voci che vengono dal profondo e che le raccontano che un’altra vita, anche per le donne, è possibile. L’esploratrice Maria Henrietta Kingsley e la pittrice Suzanne Valadon, citate nel libro, rappresentano per la protagonista fessure di aria e di cielo nelle prigioni femminili che hanno le sembianze apparentemente rassicuranti delle pareti domestiche e del miserevole lusso concesso da legami

abulici e fasulli. Nel mondo di Sylvie queste creature straordinarie costituiscono ancora un’eccezione, macchie di luce sullo sfondo grigio di milioni di donne costrette a barattare la realizzazione della propria intelligenza con il sarcasmo della frustrazione; donne che coprono i moncherini delle proprie ali tarpate con i trofei falsi e costosi di una mancata esistenza. Da questo triste destino Sylvie si difende chiamando a raccolta le sue scrittrici preferite, sorelle nella pena e nella ribellione: da Simone de Beauvoir a Virginia Woolf, da Irène Némirovsky a Jane Austen. Le loro parole la accompagnano come una preghiera che esorcizza la realtà e la spinge di lato rivelando nuovi spiragli e scenari. Solo la volontà della protagonista di non accettare la versione edulcorata del reale che il mondo borghese le impone, infatti, consentirà al suo sguardo, ormai maturo, di squarciare il velo delle apparenze e conoscere la verità delle “donne maledette”.

 

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