Austerity, i bambini di oggi non conoscono la villeggiatura

John Garland Pollard ha scritto, “Economia. Fare a meno del necessario per risparmiare denaro e comprare il superfluo”.

Nel dopoguerra, in Gran Bretagna, l’austerità mirò al sostegno della produzione nazionale e alla compressione delle importazioni. Negli anni ’70 l’Austerity fu la risposta allo “Choc petrolifero”. La crisi energetica invase l’occidente e vuotò la boria dei boom economici che in scala avevano consentito il colonialismo angloamericano nel vecchio continente. Quelli furono anni di tensione, in cui il potere regolò la vita dell’uomo attraverso il pathos del terrore.

All’unica e originale austerità il mondo legò le briglie da consegnare a quella che sarebbe stata la nuova economia, dove l’oriente, il mondo arabo, la Cina e gran parte del continente asiatico avrebbero fatto ingresso. Quell’Austerity fu la sperimentazione al divieto. Dopo la seconda guerra mondiale, una nuova civiltà si era abituata alla rapidità di un progresso colmo di insidie. In quegli anni fu necessario collaudarla alla rinuncia.

Oggi l’Austerity è un’altra cosa. Logorata e inflazionata in quella sorta di significante finanziario improprio e abusato, pare più una maldestra traslitterazione di una parola tradotta che l’intenzione secondo cui chi la pronuncia vorrebbe comunicare un nuovo modello di rigore esistenziale. L’austerità odierna non è un test su vasta scala, ma la destinazione. La rinuncia è un risultato, non più un mezzo. È molto probabile che il potere, soprattutto nelle sue versioni più subdole, sia riuscito a far sì che la rinuncia non riguardi un momento storico dell’economia, ma una condizione perpetua della vita. Se, volgarmente, volessimo rappresentare la storia come un saliscendi, allora potremmo pure conservare l’orizzonte speranzoso dei momenti di risalita. Oggi forse questo non varrebbe più, perché è in corso, forse è già stato ultimato, l’addestramento alla convinzione unica.

La politica, nella sua residuale efficacia, procede per sottrazioni, operando non solo nella finanza e nell’ordine pubblico, ma pure nel sentimento. Cosa hanno procurato questi anni di new austerity? A niente che non fosse la somministrazione della rinuncia. Come? Attraverso la più diabolica delle maniere. Dando la sensazione di soddisfare al massimo gli egoismi, tenendo in piedi una società opulenta, gremita di avamposti dell’intrattenimento, con sportelli della morale in ogni angolo delle strade, sempre pronti alla certificazione dell’indignazione, anch’essa distribuibile ovunque, grazie a un’aneddotica sempre più prestata all’adesione momentanea e al giudizio provvisorio. Un desiderio irrefrenabile di generazioni in predicato di emancipazione si è impadronito dell’attenzione intellettuale e sentimentale delle cose.

Cosa è rimasto dopo uno sforzo così grande? A volte basterebbe pesare il dettaglio per percepirne la desolazione, quel dettaglio che fluttua approssimandosi poco a poco al fondo, resistendo alla caduta per non finire ammassato sopra il precipitato delle cose andate. Dove sono finite le vacanze trascorse nelle villeggiature che duravano un mese? Pure i matrimoni sono cambiati. Quasi nessuno cerca di salvarli più. A guardarli bene, ai nuovi bambini verrebbe di consigliare di stare attenti, di non finire come nella “Trilogia della villeggiatura” di Goldoni, sposati con le persone sbagliate per colpa di chi esibisce ricchezze che non possiede.

Quando andavo a scuola la mia maestra ogni sabato ci riservava un’ora per disegnare e non ci assegnava i compiti per casa. In cinque anni non ha mai fatto eccezione. Ricordo che non amava che usassimo la gomma per cancellare. Adesso me lo spiego pensando a quanto detto da un noto accademico. “Il potere della gomma è di molto superiore a quello della matita”. Forse già a quei tempi la mia austerità aveva dato le sue prime avvisaglie.

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