Lugubre, con stile: il teatro nero di Chas Addams – prima parte

LUGUBRE, CON STILE – IL TEATRO NERO DI CHAS ADDAMS (prima parte)

Un distinto gentleman americano, impeccabile nel suo completo sartoriale ci rivolge, dalla foto in bianco e nero in cui è ritratto, uno sguardo acuto, forse un po’ scettico, ma che sotto l’apparenza da caratterista di film brillante sembra sottendere dei pensieri che non s’intonerebbero affatto a un copione di Billy Wilder.
Probabilmente, l’uomo in grigio sta divertendosi a prendervi le misure, domandandosi per gioco e per curiosità quale taglia di feretro vi calzerebbe meglio. Questo signore, infatti, è di quelli che trovano più divertente una caduta se il malcapitato incespica su di una lapide fuori posto. Alle rose rosse e le orchidee, preferisce i crisantemi, a una bella giornata di sole un’eclissi totale e non stiamo parlando di uno iettatore o di un killer della mala. Basta dirne il nome e tutto si spiega. Parliamo di Charles “Chas” Addams.
Nominare il più pungente, macabro e prolifico cartoonist del settimanale “The New Yorker” richiama subito alla mente un mondo cinico e ghignante, ossessivo forse, ma capace di sfornare gag al vetriolo dalle infinite variazioni. È il mondo con cui il disegnatore del New Jersey riempie centinaia di vignette a mezzatinta, dal compiaciuto grigiore di un ufficio a suo dire simile a quello di un investigatore fallito, perfetto incubatore di fantasie in gramaglie.

Rampollo di una famiglia dalle ascendenze presidenziali, poco più che ventenne, Addams si lascia alle spalle un’infanzia degna di Gianburrasca e impiega la propria pestifera predisposizione dedicandola non più alla molestia del vicinato, ma a produrre vignette per la rivista più sofisticata della stampa americana.
La gavetta professionale degli esordi, del tutto in linea ai propri gusti a senso unico, comincia con l’esperienza da imbellettatore di foto per la rivista “True detective” delle edizioni McFadden. Attività che non avrebbe nulla di strano, se non fosse che le immagini da ritoccare ritraggono cadaveri ammazzati, e il compito di Chas è quello di “ingentilirle” cancellando l’antiestetico sangue versato. Facile immaginare quanti spunti siano sfilati davanti a un mattacchione simile, passato con un fortunato invio di disegni al magazine della Condè Nast, dove lavora dal principio degli anni ’30 in compagnia di autori del calibro di Peter Arno, Sam Cobean e l’immenso, geniale oriundo rumeno Saul Steinberg, col quale non condividerà la sbrigliata sperimentazione grafica, ma il chirurgico senso dell’osservazione alla base del suo umorismo.

Per ridere del mondo bisogna conoscerlo, saper smontare e rimontare i suoi sofisticati meccanismi rivelandone le pecche e le funzioni nascoste, magari rimontandone i pezzi in qualcosa di nuovo. Laddove Steinberg nella sua produzione più matura è orientato verso l’analisi della comunicazione in elaborati grafismi che lo avvicinano ad artisti come Paul Klee, Addams è più diretto e uniforme, affidandosi a un segno grottesco e plastico, tradizionale e del tutto godibile in termini fumettistici, acceso però dalla fiamma della trovata che rende ogni suo cartoon una micro commedia concentrata. Commedia nera, è ovvio.

Lo scenario curato e affondato nei toni di grigio delle sfumature pittoriche cambia di volta in volta, passando dalle ambientazioni quotidiane a quelle più esotiche, come pianeti lontani, castelli diroccati, paludi mefitiche, etc. Quello che resta un tratto comune è l’anomalia, l’incidente, l’aberrazione, tutti temi che sono il fiore all’occhiello di Addams.
In una vignetta vediamo un altura sovrastante lo schermo di un drive-in, sulla quale un gruppo di spettatori imbucati si gode a scrocco la visione del film. Dov’è il gioco? La collinetta è piena di croci e lapidi e il pubblico di figure trasparenti è formato da spettri! In un’altra, una mamma orgogliosa si affaccia sul lettino con le sponde della stanza di un bebè e urla al marito – guarda, cammina! – Peccato che il piccolo stia gattonando sul soffitto.

Paragonabile alla sconfinata immaginazione di un Richard Matheson, che nei suoi racconti raggela il lettore con trovate sempre spiazzanti condensate in una manciata di pagine, o alle boutade di Frederick Brown, Chas Addams per decenni traccia il quadro (beffardo) di un universo eccentrico, popolato da mostri, psicopatici e casi limite.

Non c’è racconto che non incappi in uno sberleffo della logica e della normalità. I panni stesi tra due palazzi popolari, vedono campeggiare tra lenzuola, canottiere e mutandoni anche un tuta di lana. A quattro gambe. Una casalinga chiacchiera a telefono comodamente allungata su di una poltrona, mentre sul tappeto davanti ai suoi piedi spuntano quelli di un cadavere, presumibilmente il povero marito. A specchio di questa scena, si può contrapporre la matura e sciatta signora seduta a guardare la tivù, mentre alle sue spalle il coniuge le sta murando la porta con un sorriso soddisfatto.

Dagli anni ’30 agli ’80, gli esempi si susseguono in una lista infinita, così come le numerose raccolte che vedono radunate le vignette di Addams in raccolte che escono in USA e UK tra il ’42 e il ’65 con Simon & Schuster e con Hamish Hamilton, a cui si aggiunge il compendio della Penguin books, volumi andati esauriti da tempo, che si infittiscono di uscite anche nel nuovo millennio.
La carriera summenzionata è già abbastanza invidiabile da arricchire un medagliere non comune, quello che ancora manca è la creazione più popolare di Addams, cominciata ad affacciarsi in sordina nella sua produzione con singole apparizioni partite nel ’38. Si tratta di una famiglia borghese, eccentrica e a suo modo felice, presentata un po’ alla volta in tutti i suoi componenti, degni di un catalogo della Hammer film. È la celeberrima famiglia Addams, un capitolo a sé, di cui torneremo a parlare in seguito per raccontarne le molte vite di carta, pixels e celluloide. Tutte baciate da un successo che può definirsi in un solo modo: spaventoso.

[La seconda parte del presente contributo verrà pubblicata la prossima settimana]

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