Intervista a Ilaria Delli Paoli: “Ce la mettiamo tutta per affrontare un nuovo tipo di performance che in Italia non esiste”

  1. di Davide Speranza

Era il 1982 quando esplodeva sulla scena teatrale uno spettacolo che avrebbe fatto storia a Napoli e non solo. Tango Glaciale, di Mario Martone, spaccava la tradizione asfittica nazionale ed esponeva il pubblico a un immaginario visivo cui si approdò grazie a nuovi azzardi drammaturgici. Compagnia di bandiera del nuovo sperimentalismo era Falso Movimento dello stesso Martone (per Tango, in scena c’erano Licia Maglietta, Andrea Renzi e Tomas Arana) che poi andò a fondersi con Teatro dei Mutamenti di Antonio Neiwiller e Teatro Studio di Toni Servillo: nasceva così Teatri Uniti. Forse non è un caso che quel fermento partisse da Napoli, da un Sud pronto a sganciarsi dai cliché tradizionalisti, mettendosi a nudo in una nuova ottica di cromia emotiva.

E poi? Che senso ha parlare di sperimentalismo oggi? Esistono ancora gli sperimentatori? L’attrice e docente teatrale Ilaria Delli Paoli preferisce il termine “ibridazione”, riferendosi all’ottica di intreccio e crossmedialità performativa contenuta in certo teatro contemporaneo: attorialità, audiovisivo, tecnologia sonora, pittura, installazione. La vera sperimentazione sta nello studio di nuovi incontri tra dinamiche artistiche. Una forma, quella ibrida, che la Delli Paoli – insieme ai compagni di viaggio, Paky di Maio e Francesco Zentwo Palladino – porta avanti con successo, tant’è che il gruppo da loro creato, Electroshock therapy (EST), è stato selezionato per il terzo anno consecutivo alla Biennale di Venezia, approdando così alla fase finale delle performance site-specific.

Il loro è un viaggio lungo, verso la Serenissima, disturbato dalla mia telefonata, che li coglie alle prese con autostrade e gallerie. Prima tappa è il Teatro studio Lanciano, a Treglio, in terra abruzzese, dove prima della giornata veneziana, Ilaria e Paky (accompagnati anche da Roberto Solofria e Nicola Bove, elementi di Teatro Civico 14 fondato dalla stessa Delli Paoli) porteranno un loro cavallo di battaglia, Di un Ulisse di una Penelope. Teatro on the road, verrebbe da dire. Ma sarà il tempo di una serata, poi via verso Pescara, sopra un treno in corsa per la Laguna, trascinando valigie e bagagli-mondo che conservano in grembo strumentazioni, teli, strutture di scena, costumi. Dead Line è il titolo della performance candidata alla vittoria finale.

Nel testo critico introduttivo si lascia spazio alle suggestioni di un attraversamento fatto di muri e veli trasparenti, alla ricerca di sfumature adeguate a temi urgenti come il fine vita e l’identità di genere: «Una performance immersiva che combina teatro, arte visiva e musica live per esplorare il concetto di identità, la dualità vita-morte e l’intricato labirinto della vita. L’attrice, ingabbiata in un intricato labirinto di teli di plastica, diventa il fulcro di un’esperienza visiva e sonora, mentre lo street artist crea e distrugge continuamente il suo mondo visivo, per esplorare la complessità dell’anima, la lotta con la propria identità e il fluire inesorabile del tempo».

Ilaria da dove parte questo paesaggio visionario?

L’idea di Dead Line nasce dall’ultimo studio che abbiamo creato, in risposta al bando della Biennale che ogni anno decide un tema. Siamo stati selezionati anche per il 2024. Il tema era Niger et Albus, bianco e nero, come conflitto, dualità, contrapposizione. Abbiamo portato un lavoro inedito, che racchiude due macroargomenti cruciali. Diamo la nostra personale visione.

Come avete approcciato la materia viva delle due questioni?

Lavoriamo sempre attraverso il brainstorming, confrontandoci tra noi, percorrendo una strada comune. Ci conferiamo massima libertà, con possibilità anche di modificare le cose in corso d’opera. I testi li scriviamo con Paky, così come anche noi siamo parte attiva nella ricerca dei suoni e di elementi visivi. Non c’è separazione. E sull’argomento la nostra riflessione è che non può esserci una posizione netta di bianco e nero, ma una via di mezzo, dei grigi, al centro. Tante sfumature. Sul fine-vita parliamo di una scelta molto soggettiva, sulla quale non avremmo neanche diritto di mettere bocca. Per l’identità di genere, se ne parla tantissimo da tempo, non si prende una strada giusta ed equilibrata nei confronti della popolazione che non si rispecchia nel proprio genere biologico.

Vi aspetta la finale, questo 19 febbraio. Come vi gestirete in scena, davanti alla giuria?

Saremo tutti e tre, Paky suona live, le musiche non sono registrate. Io e Francesco siamo divisi da un muro di plastica trasparente, sorretto da una struttura autoportante. Francesco disegna sul muro con lo spray, mentre io dall’altra parte produco effetti con la mia voce, utilizzando un dispositivo, un anello che indosso e che mi permette di innescare effetti particolari in base ai movimenti della mano. Abbiamo creato i primi 7 minuti per la selezione, grazie ai quali siamo arrivati in finale. Ma a Venezia ci esibiremo in 16 minuti che poi diventeranno 30 minuti in caso di vittoria. La nostra sarà una struttura che va ad aumentare e modificarsi. Attualmente c’è un muro che ci divide. Se vinciamo, anche la struttura si amplierà e il nostro diventerà un vero e proprio labirinto. Il telo trasparente dà il senso di fragilità, consente di vederci dalle due parti, sebbene non potremo toccarci. Sono i muri che alziamo ogni giorno, le posizioni rigide che prendiamo, le scelte che facciamo. Muri che con un nonnulla possiamo abbattere.

Non darete una risposta definitiva dunque?

Esatto. Porteremo il nostro punto di vista che non vuole essere una imposizione. Né diamo la risposta, piuttosto cerchiamo di dare possibilità. Andiamo a smuovere con immagini, suoni, parole. È sempre aperto quel che si vede da noi. È sempre un punto interrogativo, chi ci guarda potrà darsi una risposta che giudicherà individualmente. Perché qui stiamo parlando di libertà individuale.

Ha senso parlare di teatro sperimentale?

Non ci definiamo sperimentali, ma ibridi e basta. Attraversiamo varie forme d’arte e cerchiamo di creare la nostra. Oggi teatro sperimentale non significa nulla. Se ne poteva parlare qualche anno fa. Da quello che io vedo, anche come organizzatrice di Teatro Civico 14, c’è ben poco di sperimentale in giro, inteso come ricerca. C’è stato un accomodamento negli ultimi 30 anni. È una questione italiana. Ad esempio tra i pionieri penso a Marta Cuscunà, che inventa nuove forme per stare in scena e crea nuovi macchinari. Ma se n’è andata in Francia. È fuori dall’Italia.

Cos’è l’ibrido? Come cucite questo termine sul vostro progetto?

Non siamo classificabili come teatro e come musica. Siamo nati nel 2020, ma siamo stati in tanti posti, siamo riusciti a fare molte piazze, tre biennali, la finale al Teatro Libero di Palermo nel 2022. Ce la mettiamo tutta per affrontare un nuovo tipo di performance che in Italia non esiste, all’estero sicuramente esistono collettivi multimediali come il nostro. Adottiamo un continuo mescolarci, stimolarci, pur mantenendo la nostra personalità individuale.

Tu hai anche fondato Teatro Civico 14, a Caserta. Una vita nel teatro.

Diciamo che nasciamo come forma di resistenza, nel 2009. Inizialmente Teatro Civico era un posto di 50 posti, che abbiamo fatto fatica a mantenere. I casertani erano abituati al teatro commerciale. Certo, sono venuti Roberto Latini, e poi le performance di Teatri Uniti già più conosciuti. Noi abbiamo tenuto duro, abbiamo lavorato sul territorio e sulla nostra resistenza personale, fino ad essere riconosciuti dalla Regione Campania e dal Ministero con inserimento nel Fus. Ora siamo in uno spazio di 80 posti, con aule di formazione, dove incontriamo forme diverse di cultura e arte.

Sembra banale, ma quali emozioni vi portate a Venezia?

Non pensavamo di essere presi per il terzo anno di seguito. Sono capitati alcuni impedimenti. Due di noi hanno avuto il Covid per un lungo periodo e allora abbiamo incontrato difficoltà nel creare insieme la performance. Ma poi è andata bene e siamo felicissimi di essere stati selezionati dai direttori del settore teatro, Stefano Ricci e Gianni Forte, che si sono mostrati interessati al nostro percorso. E poi il bando è internazionale, dalla selezione di circa 400 artisti ne escono 10, dei quali si avranno solo 2 vincitori. Molta emozione.

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