Il gioco col tempo e la “colpa” dei contagiati

“Ma dove alcuni vedevano l’astratto, altri vedevano la verità.” 

Albert Camus, La peste

 

La mitezza della proclamazione dell’emergenza si è a poco a poco manifestata con la dittatura del torto. Il dispotismo dell’incapacità ha disordinato gli eventi. Per chiarire, quando si parla di dittatura, in questo caso, non si fa riferimento alla lagna piagnucolante e disorientata della retorica politica, che, quasi sempre, quando adotta questa parola, non sa nemmeno che cosa significa. Per fortuna, per molti di noi. Qui si parla di una dittatura non vista, un condizionamento assoluto, che non vede, non sente, non percepisce, non sa nemmeno di esistere, ma fa sentire, fa percepire, fa esistere secondo se stesso. Come un virus.

Un numero piccolo e una persecuzione statistica precaria e inaffidabile hanno costantemente ammonito di dover scontare il prezzo e una responsabilità nascondendo che le imposizioni sono state dettate anche in base all’impossibilità di affrontare la crisi sanitaria. Il pregresso era inerme sin dal principio. Di fatto, è come se tutto il sistema sanitario nazionale (come tutti quelli di altri paesi) non fosse in condizione di garantire cure e sicurezza al saggio di un’epidemia e non a una sua esplosione reale. È bastato un numero piccolissimo, sia pur nella sua drammaticità (attenzione a non fraintendere un senso allegorico dell’unità di misura. Ci sono tanti morti), a dare l’ordine al disordine, a trasformare in norma superiore (con buona pace di Kelsen) il tilt di poco più di cinquemila posti di terapia intensiva per oltre cinquanta milioni di persone. E non sarebbe decoroso ometterlo, non sarebbe degno fingere che sia una condizione iniziale accettabile. Bisogna dirlo e bisognerà chiedere il conto. Non è ammissibile che una civiltà che si vanta avanzata disponga di una possibilità di vita per ogni diecimila persone. In Italia. Altrove, la proporzione è ancora più tristemente imbarazzante.

Se qualcuno pensasse che certe considerazioni possano attentare o mettere in dubbio la salvaguardia della salute e la sicurezza delle persone? Non è così. Tutto il contrario. Da oltre mezzo secolo trattati e carte costituzionali definiscono sacra la tutela della salute attraverso, prima di tutto, la necessità della prevenzione. Una prevenzione a cui se si desse conseguenza concreta sarebbe confortata da risorse notevoli e non da disposizioni limitate e mendicanti. E non è più giustificabile che l’uomo si nasconda dietro la scusa dell’imprevedibilità. Ammetterlo, al contrario, è la più disperata delle garanzie.

Quella garanzia di buona fede – non si potrebbe chiedere di più – che una parte dei media non vuole e non saprebbe assicurare, per sua bieca natura e viscido e ossequiante legame col potere, quotidianamente impegnata a diffondere notizie a serramanico contro luoghi che nell’immaginario collettivo devono essere raccontati come spazi minori, marginabili. Le cloache dell’informazione dove sguazzano e prosperano esponenti politici che solo in un clima del genere avrebbero potuto godere di patria. E per periodo non bisogna guardare solo a quello della pandemia. Col tempo, però, ce li siamo ritrovati ai governi di ogni angolo del mondo. Grazie, pure, a chi per decenni si è ambiguamente professato loro nemico. I parlamenti sono zeppi di impostori e di finti oppositori d’occasione.

La “colpa” del contagiato

La violenza di un dito puntato. Anch’esso dentro la cattiva filiazione del post contagio, è l’atto d’accusa ai contagiati. Sottile, serpeggiante. Ancora una volta, i media hanno operato come il virus in seconda. Dalle interviste ai numerosi interventi susseguitisi sull’argomento fino alla percezione e ai segnali minimi di questa insolita quotidianità, troppo di frequente è venuta fuori un’imputazione ad ignoti rivolta a chi è stato contagiato a causa dell’imprudenza di massa. Come se soltanto l’inavvertenza generale avesse determinato la pandemia. A dispetto di un numero imprecisato di positivi che hanno contratto il virus nonostante una rigorosa e preventiva prudenza, la gogna per l’untore ignoto non si è risparmiata. Ancora una volta, bisognava e bisogna spostare l’origine sull’effetto. Una mossa ispirata a un realismo magico d’occasione, in cui, attraverso una manomissione velenosa e mistificatoria, modificare la polarità degli eventi. Quasi come se la parte involontaria del contagio fosse iniziata prima della diffusione a cui le stesse autorità politiche che hanno adottato questo dispotismo “illuminato” avrebbero dovuto provvedere in largo anticipo. Invece, è stato molto più semplice mettere le mani nell’ordine delle cose. La solita simulazione, un gioco a fare le divinità tipico del potere che si esercita con smarrimento e disperazione in tutta la sua arrogante isteria.

I contagiati condannati alla colpa. Lo Stato di polizia dentro la sensibilità. Quello che poteva essere realmente utile sarebbe stato tale se adottato prima, non nel dopo che hanno voluto a tutti i costi far passare per un inevitabile durante. Il grande untore è stato il negazionismo di quello che si sapeva sarebbe accaduto se non fosse stato negato. Ci si è spostati nel futuro e, dopo averlo sbagliato, si è voluti ricorrere al passato per correggere il presente. Quale miserabile presunzione. Nemmeno dio gioca col tempo.

Il dopo?

La grande risposta non può essere quella di trovare nuove soluzioni in una diversa normalità. Non si dovrà escogitare un nuovo prontuario dell’adattamento. S’è già insinuato il germe della rassegnazione a una nuova realtà, peraltro sconosciuta, alla quale molti dicono già di non sentirsi pronti. Ecco la trappola. Bisognerà spendersi per il recupero delle cose preziose, rendendole immuni, almeno quelle, alle strumentalizzazioni, ai gioghi e agli illusionismi di questa nuova frontiera della separazione. Se più distanti, più vicini. Non il contrario. Guai a farsi trovare ancora una volta col sissignore sulla bocca. Perché l’estorsione dei sì e dei silenzi assensi è iniziata insieme allo scoppio dell’epidemia. Un’emergenza parallela e invisibile ha diffuso il diktat di una nuova pedagogia di massa. Ancora una volta, tutto finirà nell’assuefazione. Tutti condotti per mano alla normalità.

Subito dopo le cure – che arrivino presto -, la più grande risorsa dovrà essere non soltanto chiedere che tutto abbia fine, ma perché e in nome di cosa debba avere fine. La vita la “conosciamo” già. In nome di quella si è sempre sacrificato qualcuno. Spesso per i non nati ancora. Sempre, come questa volta, a rimetterci sono i più deboli e indifesi.

Ne La peste Camus scrive:

“Al termine d’una sì lunga separazione, non si figuravano più l’intimità che era stata la loro, né come avevano potuto vivere accanto a una creatura su cui, a ogni momento, potevano posare la mano. Da questo punto di vista, erano entrati nell’ordine stesso della peste, tanto più efficace tanto più era mediocre. Nessuno, tra noi, aveva più grandi sentimenti; ma tutti provavano sentimenti monotoni. ‘È ora che finisca’, dicevano i nostri concittadini: in periodo di flagello, infatti, è naturale augurarsi la fine delle sofferenze collettive, e davvero essi si auguravano che finisse. Ma questo si diceva senza il fuoco o l’acre sentimento del principio, e soltanto con alcune ragioni che ancora ci rimanevano chiare, molto poche. Al grande e selvaggio slancio delle prime settimane, era succeduto un abbattimento che si avrebbe torto di prendere per rassegnazione, ma che tuttavia era una sorta di provvisorio consenso. I nostri concittadini si erano messi al passo, si erano adattati, come si dice: non c’era modo di fare altrimenti. Avevano ancora, naturalmente, l’atteggiamento della sciagura e della sofferenza, ma non ne risentivano più l’aculeo.”

Per adesso, la tragedia è delle vittime, di chi rischia per combattere il virus e di chi contempla il lutto a distanza

Nessuna parola sarà tirata fuori dalle case, dagli ospizi, dalle carceri e dalle stanze degli ospedali di coloro che vi sono entrati senza uscirne più. È vero che nel mondo si muore di tante malattie, che esistono virus più pericolosi di questo e che altre epidemie separano gli uomini destinati a morire dall’affetto ultimo dei loro cari. Ne muoiono a migliaia come già pronti alle fosse comuni, sì, ma questa volta il dolore della separazione ha avuto il suo doppio memorabile. Due volte lontani e irraggiungibili. Quest’esperienza lascerà il segno della morte e dello svanimento.

A proposito di memorabile, tra i romanzi di Dostoevskij ce n’è uno che, a suo tempo, fu in grado di condizionare la riforma del sistema giudiziario voluta da Alessandro II. Memorie dalla casa dei morti è, secondo Turgenev, la più grande opera di Dostoevskij. Il romanzo per eccellenza del filone carcerario. È in Memorie dalla casa dei morti che, a un certo punto, si legge: “…v’è una circostanza estremamente grave che non ha nulla in comune con la medicina: cioè, la generale diffidenza di tutto il basso popolo per tutto ciò che porta l’impronta amministrativa, ufficiale”

Il racconto, nel prosieguo, disquisisce sulla diffidenza su alcuni cattivi medici, quelli corrotti, “i lupi nell’ovile”, che non può avere diritto a sporcare la grande dignità di quelli che professano con onestà la loro missione. Tuttavia, frammento che conserva una grande metafora, dopo alcune righe si legge che “il basso popolo è diffidente e ostile più verso la medicina ufficiale che verso i medici”. Un apparente paradosso che Dostoevskij stesso provvede a chiarire ricordando che niente sa essere più utile al soccorso che l’umanità di chi deve provvedervi. Ecco che il perpetuo rapporto tra l’azione e l’agente, ancora una volta, vela l’antica relazione tra l’uomo e l’umanità di cui fa parte. Luogo vago e sfuggente, dal quale ci si estranea fino a quando un flebile richiamo supera gli strepiti dell’incuranza. E non potrebbe essere quello che è accaduto e sta accadendo?

Immagine di copertina: Edvard Munch, Dal letto di morte

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