L’immunità all’esperienza. La nuova tragedia di massa

La scienza e ogni altra disciplina hanno le loro scusanti, il comportamento no. E in quest’ultimo ci finiscono quelli di chi dovrebbe decidere e di chi dovrebbe osservare. Spesso, entrambe le azioni sono in relazione. A che qualcosa di straordinario e di risollevante potesse provenire da questa esperienza collettiva della pandemia non ho mai creduto. Neppure quando l’incertezza iniziale avrebbe potuto lasciare spazio a un qualche genere di speranza.

Abbiamo soltanto assistito, e continueremo a farlo, a un decorso della malattia. Non il virus, non i suoi effetti. Alla malattia che riguarda i sani e i malati. Soprattutto i sani. La pedanteria del superfluo dato in pasto a chi s’è dovuto distrarre, accontentandosi senza saperlo, con chiacchiere e pretesti polemici ha pesato ancora una volta sul giudizio individuale e generale. Di responsabilità, di processi, neppure a parlarne. Qualcuno ha soltanto saputo provvedere alle campagne elettorali che con le elezioni si sono scandite nel programma annunciato secondo post e nuova quarantena, se ne arriverà un’altra (se dovessero peggiorare le cose ancora di più, la responsabilità non sarebbe solo delle autorità politiche, ma pure dei cittadini).

Sì, si attende ancora un processo per chi ha causato quello che conosciamo. Ma non un processo che porti alla sanzione chi ne è stato gravemente responsabile, ma che accerti e descriva il sentiero di origini e di cause. Anche quello, soprattutto quello, aiuterebbe a trovare nuove ed efficaci soluzioni. Per oggi e per domani. Tuttavia, non si può che dubitare di questa possibilità in un Paese che durante tutto il dopoguerra si è negato a se stesso.

Intanto, il potere ha imposto una convivenza col virus simulandola per contrasto. Il contagio è stato spalmato, non ridotto. La sopportazione dei tanto sbandierati sacrifici ha solo derogato la strategia per cui erano stati inizialmente annunciati. L’unico risultato è stato quello di aver trasformato un’emergenza regionale in un’emergenza nazionale. E lo si è fatto a fasi. Le uniche fasi che i protocolli hanno realmente concretizzato.

La scuola è stata intesa come un spazio e non come un diritto. La traduzione in luogo di necessità accessorie e secondarie che niente hanno a che vedere col suo significato. Il momento avrebbe imposto l’insegnamento a distanza, ma così non è stato. Tutto il distanziabile avrebbe dovuto prevedere una disciplina necessaria e funzionante, con investimenti diretti e specifici (altro che bonus vacanze e acquisti di biciclette). Il concetto stesso di distanziabile avrebbe dovuto subire un’elaborazione approfondita. Invece è stato tutto filtrato da una retorica romantica e patetica del contatto fisico che, di fatto, è inteso come contatto strumentale e non spirituale. Poiché, aspetto che non è stato sufficientemente sottolineato, l’umanità aveva da tempo cambiato il concetto di contatto fisico, sia esso sociale che individuale, da molto prima della pandemia. Le nuove frontiere tecnologiche educano le generazioni a forme e a misure sperimentate e incidenti già da molti anni prima di quello che è accaduto negli ultimi mesi.

È soltanto arrivata la prova di quanto da molto tempo temuto. Il distanziamento da certe esperienze vissute, in parte, per cronaca e non per esperienza diretta, ha indebolito la percezione tragica dell’individuo davanti ai drammi collettivi. Non più le miserie addosso all’uomo, ma l’uomo addosso alle miserie. Un’inversione per cui l’esperienza drammatica è stata messa sotto accusa senza preoccuparsi di trarne l’insegnamento che ogni esperienza tragica dovrebbe imporre. Una pedagogia avvelenata ha indotto le persone verso un’immunità all’esperienza. Il disagio, le difficoltà, i cambiamenti ad essi relativi sono stati sì vissuti e toccati con mano, ma pur sempre a freddo, regolati da interruttori a separare lo sperimentato dall’acquisito. Nessuna conoscenza, quindi. Solo un cinico e isterico smaltimento. Una rimozione della realtà. Inutile illudersi, però, che questo processo possa renderci immuni pure da traumi dei quali non conosciamo ancora il volto.

L’intelligenza avrebbe dovuto combattere e non risparmiarsi. Avrebbe dovuto ricorrere alla sua caratteristica marziale (con buona pace di un Kant declinato in maniera un po’ maccheronica), e non predicare semplicemente una prudenza nuda e disarmata. Qualcosa è salito al potere senza equipaggiamenti. E a tutti noi non è parso vero potergli obbedire. I morti continueranno a morire ancora più lontano dai vivi. Una morte accertata e nascosta. Come le responsabilità per tutto questo.

In copertina, Nicola Figlia

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