Il problema della nuova informazione. Oriana Fallaci e i webeti

“Il compito di un giornale è quello di reperire informazioni nuove su questioni di pubblico interesse e di comunicarle ai lettori nel modo più rapido possibile. Tutto qui.”

David Randall (Il giornalista quasi perfetto, Editori Laterza, 2009)

“Dopo la miseria portano le malattie”. Titolo del quotidiano Libero del giorno sei settembre 2017. Il linguaggio usato è prossimo all’oralità ma con intento sensazionalistico, appare infatti come la registrazione delle chiacchiere sovraeccitate dell’italiano meno che medio al bar. Il soggetto della frase non c’è, non c’è necessità di nominarlo perché è sempre lo stesso: ciò che è diverso dalla maggioranza. Tuttavia non è alla minoranza che è diretto il disprezzo veicolato da Libero, perché questa non ha una collocazione nella scala di valori riconosciuta da chi ha scritto, quindi non ha voce, e non può essere l’interlocutore. Il messaggio è diretto a chi fa propri i valori di cui è vessillo incrollabile un certo tipo di giornalismo. Questi faranno poi il lavoro di condivisione via web, più veloce del passaparola tradizionale, entrando a far parte del circuito dell’informazione: dall’essere fruitore del servizio a veicolo della notizia.

Il mondo di internet è oggi accessibile a una grande quantità di persone e, come aveva intuito Andy Warhol negli anni Sessanta, tutti voglio quindici minuti di celebrità, e tutti oggi possono averli all’interno del loro spazio virtuale, scrivendo come se parlassero al bar, ma con un’eco tendente all’infinito perché amplificata dagli amici virtuali. Vengono così a crearsi luoghi digitali dove persone che condivido idee d’intolleranza, e quindi solitamente stigmatizzate, possono riunirsi e sostenersi reciprocamente, aggredendo chi la pensa diversamente. Il popolare giornalista Enrico Mentana, con grande padronanza del mezzo digitale, ha definito queste persone webeti, semplificando con un termine pop un pensiero già espresso da Umberto Eco, pensiero paradossalmente condiviso sui social network migliaia di volte. I membri di queste comunità smettono di autocensurare pensieri che non avrebbero mai espresso al di fuori di una cerchia ristretta. Sono i partiti più attivi all’interno delle realtà locali ad avere sfruttato maggiormente questo uso dei social medi: i giornali hanno dato un volto definito e riconoscibile all’insoddisfazione generale, i leader politici hanno colto questa tendenza plasmando un nemico abbastanza trasversale da riunire tutti sotto un determinato simbolo.

A questo punto servono portavoce autorevoli.

L’auctores dal tempo della Commedia non è semplicemente colui che produce un testo o un’idea, ma una guida in grado di difendere dalla bestialità, ciò che Virgilio fu per Dante. Una figura riconosciuta e apprezzata unanimemente, adatta a diventare vessillo di determinati valori, così che sia più facile diffonderli sfruttandone l’immagine. Questa immagine può essere poi tanto gonfiata e distorta da uscire dalla originaria zona di eccellenza, rappresentando impropriamente altri campi.

La moralità non è legata alla capacità di successo né all’arte, anzi queste ultime non dovrebbero mai incontrarsi. Come scrisse Virginia Woolf in Orlando, incontrare gli autori idealizzati può essere deludente, perché spesso si rivelano persone poco argute o poco piacevoli.

Louis-Ferdinand Céline fu uno scrittore importantissimo per il Novecento letterario, tuttavia non nascose il suo antisemitismo, presente in molti dei suoi testi. È sbagliato, alla luce di ciò, leggere Céline? Probabilmente no, tuttavia non può assurgere al ruolo di guida morale della società.

Eduardo De Filippo esprime in diverse commedie, brevemente ma con chiarezza, la sua contrarietà all’aborto, il movimento anti abortista potrebbe sfruttare il teatro di De Filippo? Sicuramente no, perché lo scopo della sua opera fu l’arte, non fu la diffusione di una ideologia.

Di Céline è possibile leggere e apprezzare Viaggio al termine della notte, con occhio vigile e consapevole. È possibile anche leggere Bagatelle per un massacro se si guarda a un simile pamphlet come un documento storico per capire la psicologia dell’antisemitismo del 1937. Forse tra settant’anni i posteri si faranno le medesime domande nei confronti dell’islamofobia di Oriana Fallaci e del suo tempo.

“Io non mi sento, né riuscirò mai a sentirmi, un freddo registratore di quel che ascolto e che vedo. Su ogni esperienza professionale lascio brandelli di anima, a quel che ascolto e che vedo partecipo come se la cosa mi riguardasse personalmente o dovessi prender posizione.” In questa premessa del 1977 a Intervista con la storia, (BUR, 2009) sono condensate la forte personalità e la parzialità caratteristiche che l’hanno resa grande nel suo campo, e anche il totem del giornalismo fazioso. “Oriana Fallaci: la profezia sull’islam”. Titolo di Libero risalente al 2014.

Oriana Fallaci a undici anni dalla sua morte resta una delle personalità più discusse del suo tempo, contrariamente a quello che era il suo dichiarato volere è diventata il vessillo di personalità politiche e utenti del web poco avvezzi alla cultura. Nacque in seno alla guerra e per tutta la vita non smise mai di cercarla. Nella malattia non smise di fumare, il suo corpo fino alla fine doveva combattere contro “l’alieno” che i medici avevano scoperto nei suoi polmoni e che lei stessa continuava a nutrire. Questa lotta continua contro tutti era lei. L’undici settembre 2001 era a New York, nell’occhio del ciclone dell’evento più importante del suo tempo. In seguito quell’intolleranza che poteva passare inosservata nei suoi scritti precedenti divenne una dichiarata e inequivocabile islamofobia, paura, e da questa la rabbia cieca. Tiziano Terzani in una lettera accorata le scrive mezzo stampa “per non fare sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due torri” (Lettere contro la guerra, Tea, 2015), è il necrologio di una generazione di lettori e lettrici resi orfani dall’efferatezza di Oriana. Resta uno dei personaggi più controversi del panorama culturale occidentale, e non avrebbe senso sminuire la portata dei suoi articoli e delle sue interviste, tuttavia in questo momento storico sarebbe giusto regalare un po’ di oblio ai suoi pamphlet rabbiosi e ignoranti.

Per smettere di essere pro o contro Oriana Fallaci, bisogna smettere di leggere i suoi scritti al di fuori del loro ambito d’origine. Si potrà forse un giorno leggere anche La rabbia e l’orgoglio con la consapevolezza di avere davanti il manifesto dell’islamofobia della società degli anni Duemila, perchè soprattutto nel male Fallaci ha rappresentato, e rappresenta tuttora, se viene così spesso citata dalle varie fonti digitali, una parte della società contemporanea, soprattutto quella messa ai margini, che la filosofa Hanna Arendt chiamò “plebe“, la cui paura viene sfruttata in egual misura da media e terroristi.

“[…]È un errore del nostro tempo immaginare che la propaganda possa ottenere tutto e convincere la gente di qualunque cosa purché si presentino gli argomenti con sufficiente abilità e si gridi abbastanza forte[…].” Scriveva Arendt nella sua anilisi sulle origini del totalitarismo parlando della propaganda antisemita all’epoca del caso Dreyfus; mostra come fisiologicamente dal Medioevo ogni società abbia portato avanti una violenta ricerca del nemico, sempre residente negli strati muti o inascoltati, fino all’era della nuova informazione, veicolata dal web o meno.

Che siano persone provenienti da paesi diversi dall’Italia, o dalla parte sbagliata dell’Italia, omosessuali, donne, non importa, sono tutti gruppi omogeneizzati nella categoria dell’altereità. Questo appiattimento generalizzato nell’immaginario collettivo porta il singolo a rispondere in maniera solidale per tutti gli appartenenti alla sua categoria. Questi, in quanto subalterni a quella che s’impone come categoria dominante, devono corrispondere a precisi stereotipi, nel caso specifico propagandato da Libero, ma la storia è piena di esempi assimilabili, l’immigrato deve essere il nemico. Per eccitare i lettori, spingerli a comprare, cliccare, sostenere determinate testate non serve neanche che commetta effettivamente un crimine, basta che con sapienza venga eccitata la paura di quanti si trovano sul fondo insieme con lui.

“La plebe è composta da tutti i declassati. In essa è rappresentata ogni classe della società. Perciò è così facile confonderla col popolo, che pure comprende tutti gli strati. Mentre nelle grandi rivoluzioni il popolo lotta per la guida delle nazioni, la plebe reclama l’“uomo forte”, il “grande capo”. Essa odia la società da cui è esclusa, e il parlamento, dove non è rappresentata. I plebisciti, con cui i dittatori moderni hanno ottenuto così eccellenti risultati, sono quindi un vecchio espediente degli uomini politici che capeggiano la plebe.”

Hannah Arendt (Le origini del totalitarismo, Einaudi, 2004)

 

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