Stranger Things 3, niente di nuovo sul fronte multidimensionale

Scivolare dal gioco della citazione alla noia del déjà vu, il passo è molto breve. Infatti, è con una nota di scetticismo che ci si è apprestati alla visione delle otto puntate di Stranger things 3, “nuovo” appuntamento che rievoca gli anni ’80 offrendoci un calco amorevole e furbetto, tanto brillante nell’esecuzione quanto inchiodato al giogo, una vicenda ormai priva di grosse sorprese.
Volendo sintetizzare l’essenza della stagione uscita il luglio scorso su Netflix, ci rifacciamo alla matematica: uno è l’addizione, ossia crescita dei protagonisti di due anni più “vecchi” dei precedenti episodi e dunque alle prese con l’età difficile che traghetta l’adolescente dal bozzolo del suo mondo protettivo e immaginifico alle responsabilità spoetizzanti dell’adulto. Sul fronte fantastico, invece, si ritorna alla formula unitaria che si concentra su un singolo mostro di turno, infatti, la minaccia Lovecraftiana del primo ciclo, il Demagorgon, si enfatizza nella seconda stagione nel colossale Mind Slayer, per moltiplicarsi nell’emanazione dei suoi mostruosi mastini (processo, come abbiamo già avuto modo di notare, parente alla replicazione dello xenomorfo dei primi due Alien). Ora, il Mind Slayer ritorna solo, assimilando in sé spoglie e identità in una sintesi del Tarantula di arnoldiana (il grande autore di B-movie Jack Arnold), memoria e una cooperativa di Ultracorpi (sempre per restare in zona citazione).

Nulla di più originale di un kit di montaggio che, per creare una forma nuova, riutilizza e fonde insieme più modellini diversi. La circolarità è l’altro asse portante del ciclo, che vive di sottolineatura delle proprie origini potenziandole fino a farle diventare degli snodi narrativi. Ci riferiamo a figure cardinali come Will, il ragazzo rapito nel primo ciclo che, una volta salvato e riportato a casa, mantiene un contatto psichico col suo rapitore restandone succube. La doppia percorribilità del canale di comunicazione, intanto, così come ha reso Will sempre vulnerabile e sotto scacco dei cattivi, diventa a sua volta lo strumento per precederne le mosse. Una trovata encomiabile in termini di economia, ma che però dà un ulteriore nota di circuito chiuso al bacino immaginifico degli autori.

Tutto il mondo si ritrova nella comunità Hawkins, perché non potendo spostare storia e protagonisti altrove senza snaturare l’identità del racconto, deve implementarvi altri spunti caratteristici delle paure dell’epoca per ampliarne gli orizzonti narrativi. Basta uno sguardo alla cinematografia di inizio decennio per accorgersene. L’inasprimento delle tensioni tra americani e sovietici degli anni tra 1979 e 1985 hanno ripristinato il clima di timori sotterranei (se non di vera e propria paranoia) che porta al successo film come The day after di Nicholas Meyer del ’83, seguito l’anno dopo dall’invasione degli USA immaginata da John Milius in Alba Rossa. Niente di meglio, allora per spalleggiare le trame del Sottosopra che inscenare un’infiltrazione russa in piena regola, con centinaia di militari giunti di nascosto nell’Indiana – non si spiega come –  per occupare la vecchia base protagonista dei cicli precedenti e riprenderne gli esperimenti proibiti.

La risibilità dello spunto, condito dall’immancabile super-soldato che darà filo da torcere allo sceriffo Hopper, si stempera nel gioco ad incastro della sceneggiatura e va a sommarsi agli altri motivi portanti della stagione vivacizzando un racconto che vive di tanti tasselli in sé scontati, ma assemblati ad arte per alimentare una tensione che non si fonda su nessun elemento di novità.

In questo gioco di rimodellamento abbiamo una prepotente presenza femminile incarnata da personaggi forti che rubano la scena alla controparte maschile. Dalla nevrotica madre-coraggio Joyce interpretata con vivacità da Winona Ryder, all’aspirante giornalista Nancy (Natalia Dyer) che lavorativamente deve puntare i piedi per trovare spazio e credibilità in un mondo maschile, ritroviamo poi Eleven (Millie Bobby Brown) alle prese con la propria educazione sentimentale guidata dall’amica Maxine, la mascolina fidanzata di Lucas Sinclair. Sarà infine la sorella minore Erica, un vulcano di ironia, cinismo e vis polemica, a portare una nota brillante agli eventi, aggregandosi al gruppetto che ruota intorno a Dustin (Gaten Materazzo) e a Steve (Joe Keery), ex bello della scuola, ora semplice commesso di gelateria nel centro commerciale.

Anche questa separazione della squadra, come si può vedere, è un altro elemento archetipico dei racconti corali in cui, con un movimento di lateralità, le squadre degli eroi sono disgregate e riunite per l’appuntamento risolutivo dello scontro finale. Il grande Mall è un’altra figura iconica degli anni ’80 e non poteva essere il miglior luogo per inscenare una resa dei conti con l’insettiforme Mind Slayer. Il moderno tempio dedicato al consumo, dove l’atto di acquistare, come racconta De Lillo in Rumore bianco, diventa rituale misterico e privato, e offre lo spunto agli autori per fare timidi accenni di critica sociale sulla natura posticcia del Sogno Americano. Per simmetria, a offrire la sponda a queste considerazioni è proprio uno degli infiltrati russi catturato dallo sceriffo Hopper, Alexei, rappresentazione macchiettistica anch’essa, che però umanizza lo stereotipo del nemico.

In conclusione, la terza stagione offre momenti godibili e brividi in un tessuto generale opaco e tenuto insieme dalla familiarità degli spettatori con i protagonisti e dalla tecnica impeccabile della messa in scena, che riesce a scapito di ogni scontatezza a ipnotizzare il pubblico anche nei momenti più prevedibili.
Avendo ora consumato tutti i possibili appigli della trama con l’imbastitura di deboli seguiti “d’ufficio” ci aspetta una quarta stagione che dovrebbe giocarsi l’ultima carta rimasta da scoprire: il Sottosopra.
Di certo non dovrebbero mancare l’entrata in campo di altre figure di supporto e, probabilmente, anche qualche nuove rivelazione sul passato dei protagonisti, tutte mosse da manuale. Quello che ci auguriamo  è di non dover assistere a un tormentone sempreverde che a furia di venir ripetuto come un mantra diverte davvero solo le risate registrate.

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