La sentenza sul caso Cucchi e le botte agli operai

“Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte. Mi cercarono l’anima a forza di botte”. Così sta scritto sul manifesto funebre di Stefano Cucchi. La “Repubblica” è piena di casi come quello del giovane finito sotto i colpi di non si sa bene cosa, di quelli come Aldrovandi, e su ogni altro episodio di violazione rimasto non del tutto punito, se non addirittura impunito, per mano di chi ha facoltà di nascondere le mani per avere tutto il tempo di lavarle, pulirle e usarle per un’altra occasione. Pure il Primo Ministro ha intuito l’imbarazzo e ha chiesto chiarimenti al Ministro dell’Interno.

La “Legge”. Vogliamo sfogliare le pagine di Kafka? Vogliamo dare un’occhiata a una parte consistente del pensiero universale? Quello che va bene per ogni epoca. In fondo l’idea dovrebbe piacere pure a quelli che vivono al riparo sotto gli alberi di tutte le stagioni, quelli buoni per tutte le stagioni, che siano di pacificazione o di persecuzione, di protezione e di concessioni, o di complotti e repressioni. L’Italia fascista – non mi riferisco soltanto alla cultura politica – ha sempre conosciuto l’arte dell’arruolamento, scavando un solco profondo nello sbieco morale dei tutori dell’ordine che hanno fatto parte di tutte le fazioni, che hanno attraversato tutti i gradi e i segmenti degli organismi a tutela di quell’ordine. Per cultura, e non certo per decreto governativo, l’Italia per quasi un secolo è passata dal manganello fascista all’ambiguità dell’educazione civica in forma passiva, quella imposta col cucchiaio dello sciroppo in gola a chi da bambino, da ragazzo, da adulto e da vecchio avrebbe poi dovuto ripetere a memoria la prece laica della religione di stato.

Quelli come Cucchi e Aldrovandi non possono essere pure archiviati dentro un qualsivoglia genere di giustificazione. Hanno già pagato oltremisura ogni ipotesi di colpa. C’è chi finisce male pure senza aver dato occasione al manganello di esercitarsi all’ombra dell’impunità. E non ci si illuda di vivere nella bolla delle illusioni gonfiate con l’aria dell’io mi comporto bene e queste cose non mi succedono, perché ci sono cose che possono capitare a chiunque. L’immunità morale è tipica dell’ipocrisia borghese.

“Se poi lei si ritiene un privilegiato per il fatto di poter stare lì seduto ad ascoltare tranquillo, mentre io, tanto per usare le sue parole, striscio a quattro gambe, allora le ricorderò il vecchio detto: per chi è sospettato, è meglio il moto della quiete, perché chi sta fermo può sempre, anche senza saperlo, stare sul piatto d’una bilancia, ed essere pesato con i suoi peccati”. Franz Kafka

Simbolico e sottile paradosso che a certi criminali, durante l’arresto con tanto di telecamere e fotografi, venga posata la mano sul capo delicatamente per farli salire su una pantera e gli operai e gli studenti vengono riempiti di botte come fossero gli ultimi indegni di questo mondo. Se un corteo di protesta viene caricato, dobbiamo fidarci di chi poi viene a raccontarci che le ha buscate perché si è reso colpevole di comportamenti provocatori e violenti, a volte attraverso motivazioni che non trovano un solido riscontro. Quando invece un ragazzo subisce gravi violenze, quando si ha il sospetto che sia stato picchiato a morte, vengono celebrati processi che servono più a provare l’innocenza degli accusati che la verità, soprattutto per un certo tipo di accusati. Nella “migliore” delle ipotesi, tuttavia, la verità fa capolino dopo tanto tempo. Il protagonista de Il posto dell’anima, un operaio che perde il lavoro e che lotta insieme ai suoi compagni per riconquistarlo e per dimostrare le responsabilità di una multinazionale sulle malattie mortali contratte da molti operai, quando viene bloccato dalla polizia durante una rimostranza, si ribella e dice: “Quando la fabbrica inquinava e ci licenziava, la polizia stava zitta. Adesso che provo a protestare, la polizia prende il manganello.”

Vogliamo ricordare quanto sia stato clamoroso il precedente delle condanne dopo gli orrori del G8 di Genova nella scuola Diaz? Clamoroso perché la “repubblica” non era mai stata abituata a condannare dei poliziotti. Per non parlare quando, in certi casi, al posto della condanna arriva la promozione. La promozione insabbia tutto, è il provvedimento d’ufficio che sgombra da ogni sospetto. L’Italia è un posto pieno di “promossi”. Tutto questo dipende dall’estemporaneità di alcune dinamiche politiche? O dall’alternanza ideologica di quella farsa da fessi per la quale l’Italia è il paese dei pluralismi politici? Queste cose accadono perché sono la risultante di un clima culturale, di una mentalità civile che separa e distingue anche quando non andrebbe commesso l’errore di farlo, per la quale il pensiero agisce per sezioni predefinite, riempiendo di volta in volta la modulistica del luogo comune. È la civiltà della fazione. Lo sberleffo, gretto e volgare, arriva puntuale quando qualcuno si lascia scappare “queste cose succedono a chi conduce una vita dissoluta”.

Il Guardie e ladri di Totò e Aldo Fabrizi, in cui Monicelli e Steno raccontano la reciproca comprensione di di chi vive i poli opposti del conflitto sociale, è un manifesto romantico in custodia di certe sensibilità, probabilmente rassegnate e restie davanti all’iscrizione a un autoritarismo che riordina pure tra i diritti alla dignità, sfuggendo ai giudizi dei suoi errori e delle sue violazioni, perché la salvaguardia del suo stesso potere dipende dalla sua intoccabilità. E allora, come nel Un blasfemo di De Andrè, “Se furon due guardie a fermarmi la vita, è proprio qui sulla terra la mela proibita, e non dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato, ci costringe a sognare in un giardino incantato”.

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