L’addizione che sottrae – Faccia a faccia con il doppio

Nel racconto d’apertura dell’antologia Finzioni, dal titolo Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, Jorge Luis Borges cita una singolare affermazione tramite l’amico Bioy Casares: “gli specchi, e la copula, sono abominevoli, poiché moltiplicano il numero degli uomini”. La frase attribuita a un ignoto eresiarca asiatico, rimanda all’orrore degli gnostici per la riproduzione, peccato che ribadisce l’illusorietà del mondo materiale popolandolo di esseri separati dal puro spirito.

Più sottile nel suo operato, lo specchio raddoppia la realtà proponendone un simulacro sfuggente, che replica l’originale inserendolo in una dimensione altra, simmetrica e opposta, se non addirittura avversaria.

Guardarsi allo specchio richiede il pegno di resistere all’estraneità di un volto che non abbiamo modo di conoscere pienamente. L’aderenza al modello interiore che ci siamo costruiti può mostrare delle crepe, delle incertezze, delle sorprese destabilizzanti. Lo scopre a sue spese Vitangelo Moscarda, il protagonista di Uno nessuno e centomila, quando, specchiandosi a scoprire il naso lievemente storto, entra in una profonda crisi di identità con cui Luigi Pirandello ci mostra quanto convenzionale e priva di oggettività sia la nostra condizione umana.

Gli strati che compongono il nostro “io” sono fitti, ignoti, in alcune circostanze minacciosi. Per il poeta Walt Whitman, questa scissione si sublima nella vitalità di un singolo individuo che accoglie il mondo dentro – “Mi contraddico, forse? / Ebbene mi contraddico / (sono vasto, contengo moltitudini)”, nel folklore di molte culture, invece, indica un’epifania portatrice di presagi mortali.

Il confronto col proprio Doppelgänger possiede un valore funesto, una lotta di supremazia che non permette tregua ai due contendenti, tesi alla soppressione del duplicato per garantirsi il diritto di sopravvivenza.

Sono svariati gli esempi letterari che raccontano questa addizione al contrario, da Robert Louis Stevenson con la scissione de Lo strano caso del Dottor Jekyll e di Mister Hyde, al duello senza  quartiere del William Wilson di Edgar Allan Poe, al rebus di inganni e contro-inganni dipanato da Agota Kristóf ne la Trilogia della città di K.

L’elenco è lungo e ricco di varianti, lo spauracchio è lo stesso, fare i conti con l’ombra proiettata di una personalità che ha perso la sua coesione.

Nel caso de La metà oscura di Stephen King, il dato reale tracima oltre la finzione narrativa e nasconde precedenti, analogie e derive a formare un’affascinante matrioska. Protagonista di questo libro del 1989 è il romanziere Thad Beaumont, portato allo scoperto dal suo ex-agente come vero autore delle violente storie del killer Alexis Machine. Dopo la rivelazione, Beaumont inscena la sepoltura del suo alias George Stark, interrompendo con un gesto simbolico la pubblicazione del suo popolare serial. Da questo momento, parte una sequenza di omicidi che coinvolge tutte le persone collegate alla cancellazione del ciclo. Potrebbe trattarsi di un caso di schizofrenia del quale lo scrittore sia vittima? Il sospetto fa attivare le indagini dello sceriffo Alan Pangborn (figura ricorrente in altri titoli di King), arrivando a far dubitare lo stesso Beaumont della propria lucidità.

La spiegazione dell’enigma trova origine in una precedente rimozione, ossia quella dei residui fisici del gemello mai nato dello scrittore, asportato chirurgicamente dal suo cervello durante l’adolescenza. Tenuto in vita dalla produzione dei romanzi su Machine, al loro termine George Stark si materializza come una sorta di zombie e, per mantenere integra la propria fisicità, stringe l’alter-ego Beaumont in un cerchio di morti efferate per costringerlo a scrivere ancora per lui.

La sintonia con il lato ombroso segna l’ambiguo rapporto che lega il protagonista all’alter-ego. È difficile dire quanta parte di Beaumont sia realmente estranea all’aggressìvità brutale del suo doppio e quanto sia condivisa in profondità. Per risolvere il conflitto dovrà subentrare in campo una forza superiore, incarnata da un gigantesco stormo di passeri psicopompi. Spetterà al loro intervento il compito di far giustizia dell’io pluriomicida, scempiandone il corpo e traghettandone l’anima altrove, in una spettacolare conclusione non priva di domande e incertezze.

Il tema fondante del dualismo si chiude su un ripristino di normalità. Meno lineare è la sua genesi, in cui le simmetrie tra trama e vita si biforcano e inseguono più e più volte.

È ormai nota al pubblico l’esistenza di Bachman, il nom de plume di King con cui lo scrittore del Maine firma vari titoli di successo tra il 1977 e il 1982. L’operazione, nata per produrre più di un libro l’anno senza inflazionare il mercato col proprio nome, dà vita a storie più crude della produzione consueta, arricchite anche da una biografia del fittizio Richard Bachman, omaggio di King a Richard Stark (pseudonimo del giallista Westlake) e alla band Bachman-Turner Overdrive.

Il segreto ben custodito viene violato da un giovane commesso di libreria, Steve Brown, il quale col consenso di King pubblica un articolo-intervista che provoca l’outing dello scrittore. La vita immaginaria di Richard Bachman termina così nel 1985, stroncata da  un ironico “cancro dello pseudonimo”, e impedendo a King l’intenzione di attribuirgli la paternità del romanzo Misery, oltre alla doppia firma per la stessa Metà oscura, ancora in lavorazione.

Questa vicenda che non interrompe del tutto la vita editoriale di Bachman (vedi The regulators e Blaze), presenta evidenti fonti d’ispirazione al caso di Stark/Beaumont. All’autobiografismo più volte presente nei romanzi legati al mondo della scrittura (Shining, Bag of bones), si viene ad aggiungere un altro elemento di citazione narrativa, si tratta dell’omaggio rivolto da King al romanziere Shane Stevens, menzionato in una postfazione come modello di riferimento per la prosa di Stark.

Stark, dunque, è creatura di King/Bachman che attinge da Westlake/Stark per la scelta del nome, ma mostra anche debiti di riconoscenza per Stevens, la cui identità è pur’essa molteplice, trattandosi dello pseudonimo di uno scrittore attivo tra il ’66 e l’81, anno in cui si è ritirato scomparendo dalle scene.

Realtà romanzesca al quadrato.

Di Shane Stevens si ricordano alcuni noir dal taglio cruento e spietato, oltre a notizie biografiche contraddittorie, che lo riportano nato a New York nel ’41 e morto nel 2007, oppure nato nel ’37 per diventare autore di altri gialli prodotti tra l’86 e l’87 sotto il nome di J.W. Rider.

La traccia potrebbe continuare virtualmente all’infinito. Sempre più labile man mano che ci si allontana dalla sua fonte originaria, lascia il lettore a chiedersi quanto pesi l’artefatto pubblicitario dei media e quanto la fragile patina del reale nasconda labirinti di interpretazioni. Al momento non c’è risposta.

Lo specchio nello specchio si riflette all’infinito e anche la pagina con esso si amplifica, si perde, inseguita come può dal filo d’Arianna della ragione.

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