Cannes 2018, God bless America, ma meglio se indipendente

Résultat de recherche d'images pour "spike lee blackkklansman"Quest’anno sulla Croisette la rappresentanza del cinema statunitense era piuttosto esigua, con due sole pellicole, a differenza di entrambe le ultime edizioni, quando era presente con ben quattro film, sebbene American Honey, che nel 2016 si aggiudicò il Premio della Giuria, fosse diretto dalla britannica Andrea Arnold. Ad un giorno di distanza sono passati BlacKkKlansman, l’ultimo lavoro di Spike Lee, e Under the Silver Lake, un thriller molto teorico diretto dal giovane David Robert Mitchell, qui al suo terzo film, e che aveva dato buona prova di sé son l’horror It Follows, distribuito anche in Italia e presente a Cannes qualche anno fa nella “Semaine de la Critique”.

Résultat de recherche d'images pour "under the silver lake"Spike Lee racconta la storia vera di un poliziotto afroamericano che, negli anni dell’America di Richard Nixon, si infiltra nel Ku Klux Klan per sventare un attentato dimostrativo che “L’Organizzazione” (come la chiamano i suoi appartenenti) sta ordendo. Lee, che ultimamente sembra avere un po’ perduto il suo smalto, racconta questa storia partendo dal libro di Ron Stallworth, l’agente infiltrato che, nelle interazioni con la banda di fanatici suprematisti bianchi, deve ovviamente farsi sostituire da un collega, qui interpretato dal lanciatissimo Adam Driver. Sebbene il film si risollevi un po’ rispetto agli ultimi modesti risultati dell’autore di Fa’ la cosa giusta e Malcolm X, la sceneggiatura risulta abbastanza lacunosa e le vicende narrate, per quanto tratte dalle memorie di chi le ha vissute, vengono presentate in una maniera che le rende poco verosimili. Insomma, BlacKkKlansman è l’ennesimo esempio di un talento ormai appannato, anche se nel finale c’è un grande momento in cui Harry Belafonte racconta il linciaggio di Jessie Washington. Non molto meglio è andata con Mitchell, il cui film è ambientato a Hollywood e ruota attorno ad un giovane (Andrew Garfield) che si innamora dell’avvenente vicina di casa (Riley Keough, che compare anche nel film di Lars von Trier di cui si è parlato ieri) e si trova coinvolto in un’intricata vicenda che mescola, tra le altre cose, il rapimento di un milionario, un assassino di cani, un compositore misterioso e una donna che uccide travestendosi da civetta finendo per fare parecchia confusione. Per quanto vada riconosciuta a Mitchell un’indubbia maestria nella costruzione di alcune sequenze, soprattutto nella prima parte, il film risulta eccessivamente sovraccarico, incapace di mettere ordine nel grande calderone di fatti, avvenimenti e personaggi presentati, disseminando la storia di plot, subplot, indizi e segni, senza riuscire sempre a chiudere le varie parentesi aperte. Se l’idea di ragionare sui segni e le immagini del nostro presente, è molto interessante e Mitchell pare ispirarsi addirittura al David Lynch di Mulholland Drive (fatte, naturalmente, le debite proporzioni), il film purtroppo non riesce a sviluppare una narrazione adeguata rispetto alle grandi ambizioni teoriche e diventa, nella parte finale, davvero interminabile. A conti fatti, un film più bello da raccontare che da vedere.

Senza lasciare traccia" di Debra Granik - NonSoloCinema

Restando al cinema statunitense, ma cambiando sezione, registro e apparato produttivo, ieri ci siamo imbattuti nello splendido Leave No Trace, film indipendente diretto da Debra Granik, qui al suo terzo lavoro e nota al pubblico italiano soprattutto per il film precedente, Un gelido inverno, che nel 2011 riuscì a ottenere quattro nomination all’Oscar, tra cui quella per il miglior film, e contribuì a lanciare l’attrice Jennifer Lawrence, che oggi è una delle star più pagate al mondo. Inserito nella sezione competitiva della “Quinzaine des Réalisateurs”, Leave No Trace è la storia della quindicenne Tom, che abita clandestinamente con suo padre in una foresta che circonda la città di Portland. I due vivono limitando al massimo i loro contatti con il mondo moderno, per paura di essere scoperti (non è loro consentito, infatti, di risiedere in un luogo riservato alla collettività). Quando la situazione diventa pericolosa e difficile, Tom dovrà valutare la scelta tra l’amore filiale e il rapporto con i suoi simili. Inserendosi nel solco già scavato dalla connazionale Kelly Reichardt (Wendy and Lucy, Meek’s Cutoff), Granik racconta un’America fieramente marginale e anarchica, capace ancora di piccoli e grandi gesti di solidarietà, e realizza un film potentemente politico e al contempo straordinariamente poetico, ambientato in questo universo un po’ redneck. Il padre di Tom, infatti, ha combattuto in una guerra che il film non specifica (ma che è probabilmente uno dei conflitti cui hanno partecipato gli statunitensi all’inizio degli anno Duemila, Iraq o Afghanistan) ed è probabilmente questo ad avere generato in lui sfiducia verso i propri simili e una radicale necessità di solitudine e di allontanamento dal consorzio umano. Con grande intelligenza la regista, autrice anche della sceneggiatura insieme a Anne Rosellini (tratta dal romanzo My Abandonment di Peter Rock), evita di contrapporre in maniera schematica e manichea la società “cattiva”, che vessa i due protagonisti, e il loro desiderio di uno stile di vita alternativo. Ben diversamente, Tom e suo padre si imbattono in alcuni assistenti sociali generosi e sensibili, che mostrano nei loro confronti attenzione umana e professionalità, senza che questo basti perché i due si adattino al nuovo sistema di vita. Dominato dallo sguardo intenso di Thomasin Harcourt Mckenzie, che la regista dirige con sensibilità e intelligenza, Leave No Trace è sino ad ora una delle opere più emotivamente coinvolgenti di questa edizione del Festival di Cannes. Per tutta la durata del film, lo spettatore viene messo accanto a Tom, riesce a penetrare i suoi stati d’animo, i suoi dubbi, le sue tensioni, le sue paure, grazie al fulgore della protagonista, che la macchina da presa osserva mantenendo sempre la giusta distanza anche emotiva.

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