L’amore molesto di via Gemito

“Mio padre non sopportava che ridesse. Considerava la risata di lei d’una sonorità d’occasione, visibilmente falsa. […] Le doveva essere stato difficile scegliersi il riso, le voci, i gesti che il marito potesse tollerare. Non si sapeva mai cosa andava bene, cosa no.” (L’amore molesto)

 “Rusinè era lì accanto a me, non diceva niente. Si sentiva obbligata a essere diversa da com’era, questa è l’impressione che mi è rimasta di lei. […] Mio padre, era chiaro, non voleva che si divertisse, perché temeva che lei non si sarebbe divertita onestamente”(Via Gemito)

Sono due passi tratti rispettivamente da L’amore molesto (Edizioni E/O, 2015 ) di Elena Ferrante e Via Gemito (Feltrinelli, 2016) di Domenico Starnone. Attraverso il punto di vista di un figlio che assiste alle dinamiche disfunzionali della vita familiare, i due scrittori napoletani raccontano la brutalità di un padre-padrone. Questa figura è il punto di contatto tra l’opera più famosa di Starnone, e colei ormai conosciuta dal grande pubblico come la scrittrice senza volto, Elena Ferrante. Entrambi nelle loro opere più rappresentative descrivono un padre forse artista, violento, brutale, insoddisfatto della propria vita e ossessionato dalla gelosia nei confronti della moglie.

Si è tanto discusso sull’identità di Elena Ferrante, i critici di tutta Italia si sono interrogati sulla celebre scrittrice senza volto. Persino il filologo Marco Santagata dalle pagine della “Lettura” del Corriere ha ipotizzato si trattasse di una docente dell’università Federico II di Napoli. Altri ancora hanno azzardato si trattasse di un uomo: in testa alla lista dei possibili il critico Goffredo Fofi che, come riportato in La frantumaglia, il libro che racchiude i pensieri e le interviste a Ferrante, ha subito parecchi dinieghi dall’autrice nel corso delle loro interviste epistolari. Tra le possibili identità attribuite all’autrice compare anche Domenico Starnone. Perché proprio Starnone? Cosa hanno in comune oltre la provenienza geografica? Un uomo. Un padre. Un artista. Un bugiardo. Un manesco con la fronte alta e i tratti normanni. Quest’uomo anonimo nel romanzo di Ferrante è solo una figura bruta e scura, quasi incidentale nello svolgimento narrativo che ruota tutto intorno alla moglie di questi, Amalia, e alla memoria che la figlia Delia, protagonista del racconto, ne conserva. In Via Gemito invece questa figura, che risponde al nome di Federì, sporca di pittura e dalle mani che prudono, è ampliata e approfondita nel racconto del figlio Mimì.

Con una recente inchiesta pubblicata sul Sole 24ore, il giornalista Claudio Gatti, seguendo quelle che egli stesso definisce “prove”, cioè i consistenti bonifici che la casa editrice E/O avrebbe fatto a una delle sue traduttrici, punta il dito contro Anita Rajo, moglie di Domenico Starnone. Questi consistenti pagamenti, avvenuti a seguito della pubblicazione dei romanzi di Ferrante, sarebbero incompatibili con il lavoro di traduttrice free-lance svolto da Rajo per Edizioni E/O. Ciò che ha davvero scoperto Gatti con la sua indagine è che, come in ogni giallo, è la vicenda ad appassionare il lettore, non la scoperta del colpevole. In realtà a nessuno importa chi sia realmente Elena Ferrante, non importa la sua provenienza geografica o la ragione sociale. Con questa analisi non si cerca di fare un’opera di erosione all’indipendenza artistica di Ferrante come avvenne con Elsa Morante: prima giudicata influenzata e soggetta al lavoro del marito, oggi rivalutata come una dei romanzieri più originali del Novecento. L’obiettivo è registrare un parallelismo tra la figura del padre violento e bruto, descritta da Ferrante, e quella del padre violento e narcisista rappresentata in Starnone.

In Via Gemito la figura del padre-padrone è approfondita nei suoi rapporti con il nucleo familiare, in particolare con la moglie Rusinè, e con la società esterna dal figlio Mimì, narratore della storia. Il ritratto che viene fuori da questo ritratto famigliare è quello di un uomo gretto e violento con i deboli, la consorte, e remissivo con i forti, i pittori di professione e i professori ai quali vorrebbe appartenente. Un uomo volgare ma anche istrionico e affabulatore con una personalità narcisistica da manuale.

Altro corpo analizzato accanto a quello paterno, oggetto di odio e d’amore secondo la complessità emozionale che solo l’ambiente familiare è in grado di scatenare, è Napoli. Napoli è presente nel romanzo fin dal titolo: via Gemito, è una strada del Vomero, quartiere collinare della città. Questa è un puzzle di strade, gradinate, sampietrini; i suoi pezzi, rinominati e ridisegnati dal tempo trascorso lontano da casa diventano parte della costruzione memoriale dell’infanzia del narratore. Quando egli scrive è ormai nella mezza età e da molto tempo vive lontano dal capoluogo campano, la morte del padre lo spinge a tornare per confrontarsi con il suo lascito artistico e spirituale, quello di un uomo che vive per non essere dimenticato. “Ci pensò su e mi raccomandò: «Non le scordare le cose che ti racconto, non ti scordare nemmeno di me». Lo rassicurai, non dimenticavo niente.”

Le emozioni risvegliate dai luoghi natii lo riportano alle ansie e ai dolori dell’infanzia. In questo senso i luoghi e la città intera non sono specchio del Padre, ma del figlio che tenta di scioglierne le contraddizioni disgregando lo sfondo in cui queste sono avvenute, seguendo le vie del ricordo. I luoghi hanno un’identità ben definita mentre il padre è mutevole e inconoscibile, la città è quindi uno sfondo importante, ma risulta completamente fagocitato dalla personalità paterna.

Ciò non avviene in L’amore molesto dove è il lutto materno, non paterno, a riportare a Napoli dal nord Italia la figlia Delia, protagonista e voce narrante del romanzo. La città di Delia è viva, non sembrano essere le persone ad animarla, è essa stessa una creatura femminile e diabolica; con i vapori bollenti sprigionati dalle viscere del suo corpo è in grado di instillare nei suoi abitanti cattivi sentimenti, questi come formiche, brulicano sulla superficie. Napoli non è quindi solo un teatro, o una emanazione materna, come succede alla città di Mimì, irrimediabilmente distorta dallo specchio paterno.

Per esigenze di narrazione anche Amalia si diversifica da Rusinè. Entrambe sono sarte, entrambe hanno subito le percosse del marito, entrambe agli occhi dei figli ne hanno alimentato la gelosia. Sia Amalia che Rusinè sono accusate di essere vanesie e immorali, di essere il motivo del mancato successo dei consorti. Tuttavia solo la moglie di Federì resta succube tutta la vita del marito, uscendo di casa solo da morta, e totalmente spogliata delle sue innocenti vanità di donna bella e giovane. Amalia invece lascia il marito, abbandona la casa che l’ha vista più volte con il volto tumefatto costruendo attorno a sé una vita non nuova ma diversa da quella cui la sua omologa soccomberà. Amalia diviene l’assoluta protagonista del suo giallo, dove il marito è solo una comparsa.

Rusinè rimane un’ombra necessaria nella vita di Federì, necessaria alla sua vanità, quella di uomo e artista impareggiabile, bloccato nella vita solo da una donna non alla sua altezza. Lei è sempre un oggetto e mai soggetto d’azione. “Rusinè era lì accanto a me, non diceva niente. Si sentiva obbligata a essere diversa da com’era, questa è l’impressione che mi è rimasta di lei.” Ricorda Mimì.

Amalia non solo lascia il padre di Delia, ma sembra anche dotata di una malizia sconosciuta alla più semplice Rusinè. Questa ambiguità nella rappresentazione dei personaggi principali è la ricchezza delle opere di Ferrante e Starnone.

La rappresentazione di personaggi ambigui, per niente manichei, è emblematica per Amalia, nemmeno la risoluzione del mistero della sua morte scioglie quello delle intenzioni che l’hanno animata in vita. Anche Federì, per quanto impregnato di sentimenti negativi, non è un personaggio piattamente malvagio, non è un De Sade, non compie il male per il male, non prova piacere nel battere la moglie e fare falò dei suoi scarsi belletti come il topos del marito violento richiederebbe. Anzi, il modo banale in cui agisce mostra come non sia il sadismo a spingerlo, ma la convinzione di essere lui la vittima, talvolta dei complotti di altri pittori invidiosi del suo successo, più spesso degli sguardi concupiscenti lanciati alla moglie, dei quali viene lei sistematicamente incolpata e punita. Forse questo è uno dei tratti più marcatamente narcisistici della personalità del padre di Mimì.

Delia quando incontra il padre dopo tanti anni, nella medesima casa dei suoi incubi infantili, rivede un uomo totalmente malvagio, volgare, senza accenno di compassione, capace di picchiare la figlia all’indomani del funerale della madre. Questo episodio può essere letto come elemento di continuità tra il patriarca di Via Gemito e quello di L’amore molesto in quanto ennesima espressione del maschilismo dei due uomini. Reazione violenta verso i figli da parte di Federì non si è verifica solo perché genitore di figli maschi, e solo in tarda età, di una femmina. Egli quindi non trova un muro di femmine da dover domare e sottomettere come il padre di Delia, ma degli alleati, da qui il contrasto interiore di Mimì, il figlio narratore che desidera compiacerlo, ma anche ucciderlo.

Il padre rappresentato in L’amore molesto non sembra essere dotato di un vero talento per l’arte. Quest’uomo senza talento non sarebbe stato capace, anche dopo la morte della moglie, di viaggiare, variare il suo stile, risposarsi come fa Federì. Il padre di Delia è corrispondente perfettamente al topoi del marito e padre violento: la sua presenza è un’ombra nera sulla vita familiare. Federì è un personaggio vivo e complesso, ha dentro l’ambiguità della grande protagonista del romanzo ferrantiano Amalia, e non del suo omologo anonimo.

L’intenso realismo dei due romanzi è dato da un uso sapiente del registro linguistico tra italiano e dialetto, con tutte le sfumature intermedie, senza che diventi un elemento preponderante all’interno della narrazione. Il personaggio di Federì in Via Gemito mette in risalto la qualità diastratica del dialetto, egli beneficia di un uso particolarmente espressivo del napoletano quando si rivolge ai parenti o a coloro i quali considera nemici, rimprovera alla moglie il forte accento, tanto da impedirle di rispondere al telefono dove potrebbero contattarlo critici e raffinati acquirenti. Anche da questo contrasto linguistico si legge la voglia di mobilità sociale di Federì.

In L’amore molesto manca il conflitto tra strati sociali. È tutta la città a esprimersi in una lingua altra, tanto che Delia al suo rientro, quasi contro voglia, non può fare a meno di utilizzarla. A prescindere dal loro ruolo gli abitanti sono tutti influenzati dalla realtà cittadina, nelle azioni come nel linguaggio.

Leitmotiv di L’amore molesto è il problema dell’identità tra la madre e la figlia, rappresentato attraverso il ricordo della lingua saettante di Caserta verso Amalia, memoria in realtà di una violenza fatta dal padre di Casera e subita da Delia bambina. L’amore molesto ruota attorno a questa ambiguità tra il bacio clandestino di due amanti e la violenza di un pedofilo. L’identificazione con Amalia, avvenuta nella bambina nell’atto di denunciare non la brutalità subita ma l’infedeltà della madre, è una musica dapprima leggera, e via via sempre più martellante nella mente della protagonista. Questo viaggio nel mistero materno, che in realtà scopre essere il mistero del suo ricordo rimosso, la condurrà nei luoghi del suicidio della madre, e forse al suo medesimo epilogo.

Anche Mimì si scontra con una sotterranea ammirazione del padre, egli desidera ucciderlo ma anche posare per i suoi quadri meglio degli altri parenti. Il suo scopo è essere diverso da lui, appena adolescente vorrebbe rinunciare alle donne per non cadere nelle retoriche paterne, per dimenticare pettinini bruciati sul fuoco e aggettivi vanesi. L’episodio del falò delle vanità di Rusinè è l’ossessione e il leitmotiv del bambino cresciuto in via Gemito. È la volontà di difendere la madre e di non sentire le offese del padre, è il coltello a serramanico in tasca per colpire il genitore violento, è il ginocchio che non deve tremare e restare perfettamente immobile mentre il pittore, non il padre, fa quel che deve della sua famiglia.

L’amore molesto è stato pubblicato per la prima volta nel 1992; nel 2000 è apparso Via Gemito. Esiste una continuità temporale e tematica tra le due opere, segnate dalla profonda diversità dei loro autori, unite solo da un rumore di sottofondo, una città dal ventre molle, un padre che è solo una comparsa abbozzata in Ferrante, e un protagonista in Starnone; una madre che reclama lo spazio dell’intera narrazione per sé nel 1992, e poi una figurina lentamente uccisa dal maschilismo del marito e dei medici nel 2000. Due protagonisti che combattono contro il sangue del genitore dello stesso sesso pur rispecchiandosi in esso.

 

 

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