“Viridiana” di Luis Buñuel, le disavventure della virtù

Sì, credo che l’uomo debba lottare, lotta e lotterà sempre per questo fantasma chiamato libertà. 
E libertà significa anche lotta contro quei princìpi allorquando
si traducono in strumenti di repressione e di oppressione
.
Luis Buñuel, 1970

 

Luis Buñuel racconta di avere pensato a Viridiana per una sorta di volontà di sublimazione di una fantasia erotica adolescenziale. All’età di tredici anni – racconta infatti il grande regista spagnolo – era innamorato della regina iberica Vittoria Eugenia, bellezza nordica, ovviamente irraggiungibile perché, differenza di età a parte, la donna era sempre circondata da cortigiani. L’impossibilità di entrare in contatto col suo oggetto del desiderio spinse il giovanissimo Luis, a quei tempi studente presso un collegio di gesuiti, a fantasticare di mettere un narcotico nel latte della regina e di avere così la completa disponibilità del suo corpo.

Viridiana, capolavoro epocale vincitore della Palma d’oro a Cannes nel 1961 (ex-aequo con L’inverno ti farà tornare di Henri Colpi), capovolge la fantasia giovanile del regista aggiungendovi inoltre fremiti incestuosi: nel film, infatti, è l’anziano zio Don Jaime, interpretato dal grande Fernando Rey, a sedare l’attraente nipote novizia Viridiana e a pensare di violentarla nel sonno, salvo cambiare idea all’ultimo momento. Viridiana segna il ritorno di Buñuel in Spagna dopo trent’anni di esilio ed è un virulento attacco, intriso di sferzante sarcasmo, contro il cattolicesimo cupo e controriformistico del Paese guidato dalla dittatura di Francisco Franco.

Alla sua uscita il film scatenò reazioni durissime da parte della Chiesa e del governo franchista (che erano in fondo una cosa sola): non solo ne fu vietata la visione ma venne fatto divieto a tutti di nominare la pellicola e si tentò poi di boicottarne la circolazione all’estero. I funzionari che avevano visionato il film e il direttore generale del cinema di Spagna, José Fontàn, furono tutti destituiti per “eccesso di permissivismo”, cioè per le loro scarse qualità di censori.

La messa alla berlina sia della prassi che della teoria religiosa, la critica contro l’ipocrisia della vita monacale e soprattutto la derisione del velleitarismo di chi ambisce a vivere da santo gettavano una pietra (anzi un vero e proprio masso) nello stagno del falso ottimismo borghese e clericale. Dopo il suicidio dello zio, Viridiana si vota ad opere caritatevoli ospitando a palazzo tutta una masnada di mendicanti, accattoni, vagabondi, cialtroni e reietti di ogni risma. È a questo punto che il maestro spagnolo regala agli annali della storia del cinema una lunga indimenticabile sequenza: la cena che i disgraziati “ospiti” di Viridiana si concedono in sua assenza, con tanto di foto-ricordo blasfema ispirata al Cenacolo di Leonardo Da Vinci, rischia di concludersi con lo stupro dell’ingenua benefattrice. È un momento di cinema assoluto, una delle vette massime della filmografia buñueliana e, probabilmente, dell’intera storia del cinema.

Con il suo mostrare crocifissi che nascondono pugnali e concludendosi con l’incendio della corona di spine che la protagonista all’inizio del film estraeva dalla sua valigia, Viridiana costituisce con Nazarìn (1958), Simòn del desierto (1965) e La via lattea (1969), una sorta di tetralogia della dissacrazione. D’altronde, Buñuel, anarchico e iconoclasta, si definiva “profondamente e coscientemente ateo”, indifferente ad ogni problema religioso, da sempre interessato agli uomini piuttosto che a Dio.

Da buon seguace del surrealismo, forse il primo movimento artistico a sdoganare le scoperte freudiane e il ruolo e l’importanza dell’inconscio, il maestro di Calanda dissemina il suo cinema di oggetti dal doppio significato, di simboli della castrazione, di feticci (e il feticismo, con lo zio che si prova gli abiti e le scarpe della moglie defunta, è uno dei temi centrali anche di Viridiana), tutti elementi che rimandano alla dimensione subcosciente dell’individuo. Da questo punto di vista, Viridiana è opera paradigmatica dell’universo buñueliano, contenitore di molte sue ossessioni, film densissimo che mescola Chateaubriand (la vocazione all’incesto e al sacrilegio di Atala) e i quadri della miseria di Goya, Lazarillo de Tormes e Misericordia di Benito Perez Galdòs, Freud e Sade. Una vera perla, ma avvelenata.

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