Tina Pica, la punteggiatura del sentimento

A Napoli, oltre il ponte di via Pietro Castellino, all’Arenella, una lastra di marmo ricorda Tina Pica, attrice in giovanissima età, tra un testo di Francesco Mastriani e la formazione della compagnia dei De Filippo, dove, ai primordi del “secolo breve”, già sapeva come recitare.

Dai film muti diretti da Elvira Notari al premio oscar Ieri, oggi, domani di Vittorio De Sica del ’63, Tina Pica ha consegnato a oltre mezzo secolo di cinema un nastro su cui ha impressionato un timbro di voce che ha scandito la saggezza e l’ironia di un’intelligenza e di una sensibilità capaci di assorbire i malumori e gli imbarazzi altrui, per poi riconsegnarli al diretto interessato con tono fermo e consolatorio, in quella tipica interlocuzione scandita dal ritmo dei suoi mugugni, del suo lieve e dolce brontolio, come i rumori di fondo della verità. Concetta Annunziata Pica è stata il grillo parlante del cinema italiano, la voce della coscienza affianco alle più ingombranti figure artistiche del Novecento. Da Eduardo a De Sica, dalle regie di Luigi Zampa e Mario Soldati a quelle di Risi e Monicelli, non ha conosciuto sosta il mito discreto di una tra le attrici più preziose delle quali ognuno di questi attori e registi abbiano mai disposto.

Tina Pica, Nonna Sabella, Caramella, La capera, donna Rosalia, zia Tina e tante altre. Tina Pica, un punto di grazia e di compostezza, figlia d’arte, consegnata della recitazione agli esordi con la compagnia Stella, quando, al Teatro San Ferdinando, aveva interpretato un personaggio maschile ne Il cerinaio della ferrovia. A causa del suo particolare timbro di voce, Tina Pica a teatro ricoprì anche alcuni ruoli maschili, come l’Amleto di Shakespeare e come Anselmo Tartaglia, personaggio già interpretato dal padre. Il registro Tina Pica non era caratterizzato da una recitazione di interpretazioni che fossero in esterno o in prima scena. La sua “funzione” era quasi sempre sentenziosa, come un aforisma in forma di bisbiglio, dedito a incursioni gentili utili a puntualizzare forze e debolezze dell’impianto morale e intellettuale della scena. Il tratto ironico e sussurrante della sua voce cavernosa, emesso in fragore di sussurro, funzionava quasi da sterzo alla direzione collettiva delle scene. I suoi occhi profondi e brillanti, il suo volto lungo e le sua labbra pensili, in un’armonia di maschera inimitabile, erano capaci di restare in scena senza parlare, in piena empatia coi movimenti e con le parole degli altri attori, e in completa e assoluta rielaborazione del momento.

Tina Pica viveva la scena senza memoria, senza necessità di assimilazione di tempi comici, perché capace di consegnare la “ribattuta” in sintonia spirituale e cerebrale al suo interlocutore. Le sue battute erano spesso delle sentenze, delle metafore, delle allegorie, improvvise e fulminanti, fino a una rappresentazione dell’istante che sapeva concentrare verbo, suono ed espressione. “Fratello, vatti a coricare”, “La morte è dispettosa”, “La gente, la gente”, “Amore di gioventù, quel che fu fu” e ancora potrebbe essere ricordato di quel vasto campionario di battute che ricordano un’attrice nata attrice.

Per Leopardi nulla è più raro che una persona abitualmente sopportabile. Tina Pica, invece, sarebbe abitualmente indispensabile.

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