‘Le vele scarlatte’ di Pietro Marcello, dopo la rivoluzione

Da qualche parte nel nord della Francia, Juliette, giovane orfana di madre, vive con il padre, Raphaël, un soldato sopravvissuto alla prima guerra mondiale. Appassionata di musica e di canto, Juliette ha uno spirito solitario. Un giorno, lungo la riva di un fiume, incontra una maga che le predice che delle vele scarlatte arriveranno per portarla via dal suo villaggio. Juliette non smetterà mai di credere nella profezia [sinossi].

Film di apertura della “Quinzaine des Réalisaterus” all’ultimo Festival di Cannes, Le vele scarlatte è il terzo lungometraggio di finzione diretto da Pietro Marcello (autore molto attivo anche nel documentario), e fa seguito a Bella e perduta, in concorso a Locarno nel 2015, e a Martin Eden. Il nuovo parto creativo del regista casertano è anche il suo primo lavoro girato e ambientato all’estero, in Francia, e per certi versi dialoga con quello precedente, che nel 2019 era valso a Luca Marinelli la Coppa Volpi come miglior attore alla Mostra del Cinema di Venezia. Entrambi i film, infatti, hanno un’origine letteraria, per quanto Marcello e i suoi collaboratori, con i quali ha curato l’adattamento del testo per il cinema, Maud Ameline e il fedele Maurizio Braucci, possiedano l’ottima capacità di stravolgere la storia e attualizzarla, trasformandola in fertile rappresentazione e riflessione politica sul presente.

Il punto di partenza de Le vele scarlatte è un romanzo dello scrittore rivoluzionario Aleksandr Grin, iniziato nel 1916 e terminato e pubblicato nel 1923, esattamente un secolo fa. Pacifista convinto ai tempi della Grande Guerra, Grin prese parte alla Rivoluzione d’Ottobre, per poi distaccarsi successivamente dagli eccessi e dalla violenza del nuovo regime sociale. Il film di Marcello si presenta come un’opera allo stesso tempo colta e popolare, che parla – per l’appunto – di utopia e rivoluzione, pur senza mai mettere in bocca ai personaggi questi due termini, per rivelarsi poi, nella sua essenza, un racconto per (bellissime) immagini che, utilizzando il velo della fiaba, esprime forti contenuti femministi, oltre a essere impregnato di un delicato afflato lirico che rimpiange la fine di un mondo, quello dell’artigianato e del lavoro manuale, soppiantato dall’incipiente arrivo della modernità. Straordinaria appare, infatti, l’abilità del regista nel restituire l’aria del tempo, rievocato più attraverso i volti e i corpi dei personaggi, comprese le comparse, che dalle immagini d’archivio, utilizzate in quest’occasione in maniera più occasionale e parsimoniosa. Visi scavati, chiome prive della minima cura, mani nodose che terminano con dita solcate dai calli restituiscono l’epoca assai meglio di qualunque fotografia o immagine in movimento.

Non si tratta di una critica verso il cosiddetto progresso tecnico, quanto piuttosto la constatazione – attualissima – che alle nuove invenzioni e alla comparsa dei primi congegni e strumenti meccanici non abbia fatto seguito un aggiornamento dei valori, un miglioramento nella vita delle classi subalterne, una maggiore empatia verso il diverso, il non allineato, il reietto (basti pensare che, ora come allora, le donne ricevono una paga inferiore per lo svolgimento della medesima mansione lavorativa). La coppia di protagonisti, padre e figlia (splendide le prove attoriali di Raphaël Thiéry e Juliette Jouan), insieme a una coppia di amici (un altro artigiano –  un fabbro – e sua moglie) e alla generosa madre putativa di Juliette (la quale, tra l’altro, potrebbe non essere figlia di Raphaël), vengono a costituire una famiglia atipica, derisa e socialmente emarginata dagli altri abitanti del villaggio, che definiscono spregiativamente questo nucleo non ortodosso ma profondamente unito con l’appellativo di “corte dei miracoli”. Juliette viene rappresentata come fulgido esempio di emancipazione femminile: una donna libera, fiera, sfrontata e indipendente, che si istruisce leggendo le poesie di Louise Michel (poeta anarchica e rivoluzionaria anch’essa, membro della Comune con la quale prese parte ai moti del 1871), suona il pianoforte, compone canzoni e, come si ascolta in una dei testi da lei musicati, è ben consapevole dell’ostilità cui un carattere indomito e ribelle come il suo può andare incontro.

Le vele scarlatte è anche un omaggio al mondo delle fiabe, dalle quali estrae miti e archetipi: la strega, la magia, il ritorno dei morti (qui ridotto a una sequenza affascinante seppur fulminea), il principe azzurro, che viene letteralmente dall’alto, nelle vesti di un aviatore, impersonato da Louis Garrel. Pur comprendendone pienamente la funzione nel racconto e per quanto coerente con la narrazione, ci è sembrato tuttavia che proprio il personaggio, non presente nel romanzo, interpretato dal nuovo divo francese, costituisca la parentesi più sfocata e debole del film, quella che va avanti con più fatica. L’impressione, per dirla tutta, è che la presenza di Garrel sia stato il tributo da pagare alla coproduzione francese, evidentemente desiderosa di imporre un nome di richiamo nel cast.

Opera politica, nel senso migliore del termine, Le vele scarlatte è tuttavia impregnato di quella tenerezza capace di raggiungere anche lo spettatore meno “militante” e quello poco avvezzo a rintracciarne i vari rimandi storici e culturali. Non sempre risolto e qua e là forse un po’ forzato nel costante inseguimento  dell’afflato lirico, resta un film da non perdere, da gustare possibilmente nel buio di una sala cinematografica.

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