Sulla trattativa Stato-mafia ci sarà mai sentenza che tenga?

“Non siamo pronti per conoscere e accettare laicamente cosa realmente accadde nel biennio delle stragi. Abbiamo delegato la ricerca della verità ai giudici e solo i nostri pronipoti riusciranno a capire cosa è accaduto in Italia dal 1992 al 1994.” Alfonso Sabella, ex componente il pool antimafia di Palermo all’epoca della cattura di Leoluca Bagarella, Pietro Aglieri e Giovanni Brusca.

“Riuscire a capire cosa è accaduto in Italia tra il 1992 e il 1994”. “Cosa è accaduto”. In realtà, andrebbe detto “cosa accade”, perché anche l’ultima sentenza di secondo grado fa parte di questo processo storico misterioso e inaccessibile. E non confiderei molto nel tempo, visto che è da Portella della Ginestra che la speranza che almeno il tempo consegni la cosiddetta verità a chissà quali “pronipoti” è uno dei tanti risvolti vani e illusori dell’irrivelabilità del potere.

E poi, una volta per tutte, basta col trattare la verità come qualcosa di stanco, di afflitto, allo stremo delle forze dopo che il tempo e le sue miserie vi siano passati sopra coi loro trascorsi fatti di mura altissime e invalicabili. La verità è un concetto molto più complesso, irrimediabilmente riparato in se stesso, ora usurato ora rinvigorito da una percezione e da una ricerca delle cose che non possono trovare collocazione in un momento o in una lettura di esso.

La verità dei fatti che hanno mortificato e ancora mortificano un’intera civiltà, i fatti di mafia, marcisce dentro gli accadimenti, negli istanti in cui furono concepiti, programmati e consumati fino alla contemplazione dei loro effetti. Quella verità, il cui dopo non è verità, langue silenziosa come gli occhi bendati della giustizia di Carl Hamblin. Ogni volta, lo sguardo del passante si volge solo al richiamo del gemito, anch’esso, quasi sempre, largamente incompreso.

La sentenza di secondo grado ha scagionato lo Stato ritagliando via la mafia. Meglio, quella mafia per cui perdere o vincere adesso non ha alcuna importanza, perché non esiste più. Il suo sviluppo ha trovato nuovi volti e nuovi rappresentanti in qualcosa che sotto processo non ci va più. Tuttavia, questa è un’altra storia.

Non è un caso che al dispositivo della corte d’assise di appello di Palermo abbiano reagito con soddisfazione e sollievo quelle parti politiche apparentemente avversarie, ma indissolubilmente legate da un patto di fondo che le riunisce sotto lo stesso cartello politico. Un’alleanza antica, che affonda le sue ragioni in molti decenni addietro e che, ma questo ormai conta sempre meno, oggi beneficia di voci, molte delle quali anagraficamente lontane da quegli avvenimenti, e, per quelle che invece quei decenni li hanno conosciuti bene, il sodalizio morale e programmatico resta compiuto e per nulla scalfito. S’inganna chi crede che le cose cambino così rapidamente e così radicalmente.

Questa sentenza, che un tempo avrebbe suscitato ben altre reazioni, è l’intervento di chirurgia estetica al volto di Stato. La rimozione è avvenuta attraverso un atto legale che separa l’inseparabile. Quel che un tempo è servito, adesso non serve più. Dall’aula bunker di Palermo al cratere di Capaci, dal luogo della strage di via D’Amelio a via dei Georgofili, un via vai di anime in pena s’è messo in fila per salire sopra la barca di Caronte. L’Ade seppellirà le testimonianze, i sacrifici, le spontaneità e le menzogne, gli accordi e i disaccordi in un archivio presso cui saranno sempre meno ad affollarsi. Anno dopo anno, sfoltirà pure la veglia a quei nomi che oggi restano allo stato della commemorazione e il cui lavoro non affrancherà altro se non quel gigantesco non luogo a procedere sopra il grande mancato della storia.

Il congegno tarato sin dai tempi dell’Unità d’Italia – ci sono cose che non finiranno mai sui libri di scuola (e qui non c’entra alcuna disputa d’ordine campanilista) – per cui uomini di legge e fuorilegge, delitti e processi dialogano in una perpetua interlocuzione d’identità non ha ancora fallito. Un meccanismo che funziona insinuandosi tra le paure e le rassegnazioni, guidato da quelle “menti raffinatissime” in grado di manovrare il tempo e lo spazio. Nessuno saprà mai quale perfetto equilibrio o quale potentissimo caos si regge sopra tutto questo. Pare che anch’essi, di tanto in tanto, intavolino una trattativa.

Signori, l’udienza è tolta. La corte si ritira per non deliberare.

Immagine di copertina, dettaglio de La verità che esce dal pozzo, di Jean-Léon Gérôme – 1896, olio su tela

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