Satana e Margherita

La bocca leggermente storta. Perfettamente rasato. Bruno. Un occhio, il destro, nero, l’altro stranamente verde. Sopracciglia nere, ma una più dell’altra”. Satana fa così la sua prima apparizione nella Mosca atea degli anni trenta, nelle vesti del professore tedesco di magia nera, Woland. Nel verde Parco Patriarsie Prudi il poeta Bermaj e il capo dell’associazione Massolit, Berloj, discutono della provata inesistenza di dio e di quegli uomini ridicoli che credono che Cristo sia storicamente esistito. Il diavolo s’insinua tra gli scrittori, iniziando a narrare della conversazione a cui aveva assistito molte lune prima, tra il procuratore Ponzio Pilato e il filosofo vagabondo conosciuto come Ha-Nostri, dall’ebraico, il nazareno.

A seguito dell’incredibile racconto, gli eventi precipitano, le vite e le convinzioni dei protagonisti vacillano. Il diavolo comincia così ad ingrossare le fila dei pazienti della clinica psichiatrica cittadina e dei morti, mentre il suo seguito sconvolge le esistenze degli ignari, e fino a quel momento atei, abitanti di Mosca. Una coorte fatta di vampire e streghe nude; un grosso gatto di nome Ippopotamo, sempre accompagnato dal cavaliere tuttofare Kokorev; Azazelo, diavolo armato di spade e fornito di magici unguenti di bellezza e di perdizione per le donne, s’insinua nella repressiva società russa.

Questo l’incipit propostoci da Michail Bulgakov, nel suo capolavoro pubblicato postumo Il Maestro e Margherita (Garzanti, 1982). In questo Romanzo di Pilato, come battezzato dall’autore stesso nelle prime versioni, Bulgakov costruisce un libro nero e apocrifo, sia in riferimento ai credenti religiosi che ai funzionari russi che lo hanno perseguitato in vita. Scrittore e prolifico autore teatrale della Russia post rivoluzionaria, Bulgakov sottolinea, nella varietà dei testi, le contraddizioni, le abitudini e il carattere dei moscoviti, ma solo in questa sua ultima opera convergeranno e si arricchiranno le riflessioni precedentemente affrontate, dando vita a un capolavoro di modernità estremamente visionario.

Il richiamo al Faust goethiano da parte di Bulgakov è evidente nella scelta del nome di origine tedesca, Woland, per il suo satana. Goethe ha in effetti dato avvio a una laicizzazione della figura di Satana che tocca il suo culmine proprio nella storia di Bulgakov: a Mosca il diavolo è un omuncolo qualunque, non è in lotta con Dio come un Lucifero miltoniano, ma opera per il suo piacere e divertimento, e perché fare il male è la sua natura. Woland prima di essere Maligno è un filosofo, ma sopratutto è un borghese. In questo sta la sua assoluta originalità. Il romanzo si emancipa dalla letteratura precedente anche per le critiche implicite alla repressione esercitata dal governo russo negli anni Trenta, e per le figure create dalla pura fantasia del suo autore, in un campionario di immagini magiche, tetre, al limite del folle, fuse nella quotidianità di città, confermando quanto sostenuto da Dostoevskij: “tutti i russi sono pazzi”.

L’autore fa conoscere per bocca di Woland prima, e in seguito attraverso le pagine del Romanzo di Pilato, scritto dal suo melanconico protagonista, il Maestro, la storia non ufficiale della passione di Yeshua. Le prime edizioni del romanzo di Bulgakov erano eponime del manoscritto vergato dal Maestro, una compenetrazione tra autore e personaggio che culminerà nella consegna dei rispettivi capolavori alle fiamme di una stufa, anche se Bulgakov, al contrario del suo protagonista, ripeterà il rituale molte volte, fino all’ottava stesura.

Nello sviluppo dell’opera, in parallelo alle vicende della morte di Yeshua, del discepolo Levi Matteo, e del traditore tradito Giuda di Kerioth, s’incontrano gli sfortunati frequentatori di Via Sadovaja n. 320 bis, esiliati o giustiziati per avere disturbato il diavolo durante il suo soggiorno in Russia.

Nella seconda parte del romanzo vengono presentati i protagonisti. Il Maestro, ammalatosi di paura a causa della limitata apertura della scena letteraria moscovita al suo romanzo sul processo di Pilato, e la sua amata Margherita, anima errante dell’opera. Margherita, “questa donna che aveva gli occhi sempre accesi di una fiamma indecifrabile“, aveva tutto per essere felice e non lo era. Lei offre al lettore le pagine più accese del romanzo, mostrando la nudità dei suoi sentimenti al Maestro e del suo corpo durante il Sabbah. Con il volo stregonesco sopra i tetti di Mosca e la recita di regina al Gran Ballo di Satana, accanto al gatto parlante Ippopotamo, è uno dei personaggi più emblematici dell’opera. Margherita si dedica alla ricerca del suo amato, proprio da lei battezzato “Maestro“, senza mostrare timore, con la rassegnazione di una folle e a costo di vendere l’anima al diavolo. Questa sfrenata ricerca la condurrà non alla conoscenza, bensì alla consapevolezza, che fa di lei una vestale della stregoneria, a cui viene risparmiata la tragica sorte della famosa sorella faustiana.

Non s’incontra nessun dottor Faust nell’opera di Bulgakov: tuttavia Margherita, come il medico tedesco, è animata da una continua tensione, non verso il Sapere ma verso l’amante. Margherita possiede un sapere innato e istintivo, e non si cura del bene e del male, sono condizioni equivalenti e senza significato, crede unicamente nel ritorno del suo mentore. La sua capacità di riconoscere il diavolo ancor prima di vederlo, attraverso un intimo processo di percezione, svela la sua natura composita, il suo essere una creatura del buio e della luce. Su di lei, donna moderna e amante di un tempo passato, si concentrano le scene più belle del romanzo e le riflessioni più intense sulla qualità umana.

Compare, infine, dopo le narrazioni a opera del Maestro, il procuratore della Giudea. Il protagonista assente, proprio come l’uomo amato da Margherita, in una lontana notte di plenilunio non si oppose alla morte del saggio Yeshua, e per questo è destinato alla solitudine, unica compagnia il cane Bangà. Per diecimila lune d’insonnia e tormento Pilato è condannato a processare se stesso in un limbo senza soluzione di continuità.

Il Maestro prenderà il posto del suo eroe, ma senza il supplizio, condividendo l’isolamento con Margherita, compiendo così la sentenza indicata da Levi Matteo: “Non ha meritato la luce, ha meritato la pace”. Nella sorte lo accompagnerà l’amata e ripudiata Margherita, perché “chi ama deve condividere la medesima sorte della persona amata”. Tuttavia, e lo riconosce il diavolo, “se è vero che la vigliaccheria è il vizio peggiore” allora, forse Bangà e Margherita, che seguono fedelmente e attivamente le persone amate, non sono colpevoli. Per Margherita la luce non è il Dio incerto, è il Maestro.

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