“Sully” di Clint Eastwood: il fattore umano

Sully: “Lorrie, amore: voglio che tu sappia che ho fatto del mio meglio.”
Lorrie: “Ma certo. Li hai salvati tutti.”

Sully di Clint Eastwood

 

Il 15 gennaio 2009 il volo 1549 della U.S. Airways, poco dopo il decollo dall’aeroporto newyorchese di LaGuardia, si imbatté in uno stormo di uccelli che provocò l’avaria di entrambi i motori. Il comandante del volo Chesley “Sully” Sullenberger dovette operare un ammarraggio d’emergenza sulle acque gelate del fiume Hudson, una manovra grazie alla quale salvò la vita di tutti i 150 passeggeri e dei cinque membri dell’equipaggio.

Celebrato come eroe nazionale dai media nazionali e internazionali, Sully fu però costretto a difendersi da un’inchiesta effettuata dal National Transportation Safety Board (NTSB) che lo accusò di non avere compiuto l’operazione più sicura secondo i simulatori aerei, e cioè il ritorno allo scalo di partenza o un atterraggio di emergenza nel vicino aeroporto di Teterboro, e di avere invece optato per quella più rischiosa, violando il protocollo della navigazione aerea.

Ad un anno di distanza dal bellissimo Il Ponte delle Spie di Steven Spielberg, dove interpretava l’avvocato James Donovan, Tom Hanks riveste ancora una volta il ruolo dell’uomo retto, probo, coraggioso, capace di mettere a rischio la propria incolumità e quella di altre persone partendo dalla convinzione non di essere nel giusto ma, quantomeno, di non essere in errore. Sully, il nuovo film di Clint Eastwood, presentato in anteprima al Torino Film Festival e nelle nostre sale a partire dal 1 dicembre, condivide con quello dell’autore de Lo Squalo il fatto di mettere al centro l’Uomo, l’individuo, chiamato a scelte gravose e guidato dal rigore della responsabilità e dal più sincero spirito di abnegazione. Non a caso, il cardine della difesa del comandante davanti ai suoi inquisitori è quella di rimproverare loro una ricostruzione nella quale è totalmente assente il fattore umano, determinante in casi in cui la tempistica è fondamentale ed una manciata di secondi può essere fatale e dirimente. D’altronde, anche nel descrivere la reazione psicologica di Sully alle accuse che gli vengono rivolte, il regista e lo sceneggiatore Todd Komarnicki (alla sua prima collaborazione con il regista) hanno cura di mettere in risalto questo elemento e di dargli una profonda rilevanza: come tutti gli uomini perbene, il comandante è ossessionato dai dubbi fino a sospettare di avere avuto torto, di avere corso un inutile rischio, di avere giocato d’azzardo mettendo a repentaglio la vita di 155 persone. Sully rappresenta l’uomo comune, il volto rassicurante che gli Stati Uniti vogliono darsi, simile in questo senso ai personaggi interpretati da James Stewart negli anni ’50 e ’60.

Nelle mani di Eastwood, narratore di razza, la vicenda di Sully è raccontata con piglio sicuro e secondo lo schema ormai sempre più classico di smontare la cronologia degli eventi, alternando il momento dell’incidente, quello dell’inchiesta e i tormenti del protagonista, interpretato con misura e intensità da un Hanks perfettamente a suo agio nella parte. Tuttavia, nel rappresentare questo suo “miracolo sull’Hudson”, il regista non manca di sottolineare il lavoro e la grande efficienza della macchina dei soccorsi (navi, elicotteri, sommozzatori, Croce Rossa) che in soli 24 minuti riuscirono a portare in salvo le persone appena sbarcate dall’aereo in una celebrazione che qualche detrattore non mancherà di definire (ingiustamente) troppo politically correct. Sully ha il pregio di una sceneggiatura di grande precisione e stringatezza che però perde qualche colpo nel tratteggiare, forse troppo frettolosamente, le figure di alcuni passeggeri (una donna con la madre invalida, un padre accanito giocatore di golf che era sull’aereo con il figlio ed un amico), una scelta che, se da un lato serve ad allargare il quadro coinvolgendo giustamente i sopravvissuti, dall’altro sacrifica alla durata ridotta della pellicola (95 minuti, la più breve nella carriera di Eastwood) il necessario approfondimento che qualcuna di queste microstorie avrebbe probabilmente meritato.

A discolpa di Eastwood potremmo dire che, probabilmente, forte era il desiderio di da parte sua mettersi un po’ in disparte, quasi a disposizione della materia narrata, limitandosi ad una regia corretta, pulita, che trova l’emozione senza cercarla, mettendo semplicemente davanti agli occhi dello spettatore questa esemplare vicenda di ordinario eroismo, che trova la sua forza in se stessa senza bisogno di particolare enfasi e senza forzature retoriche. Quasi che, allo stesso modo del comandante Sully, Eastwood stesse cercando di dirci: “Stavo facendo semplicemente il mio lavoro, al meglio delle mie possibilità”.

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