Venezia 72: i vampiri moderni di Marco Bellocchio

È il giorno di Marco Bellocchio oggi al Lido, e il maestro romagnolo regala ai suoi ammiratori un’opera complessa, multiforme, meravigliosamente eccentrica e sbilanciata che non ha convinto tutti (qualche fischio, sebbene isolato, alla proiezione stampa delle 11) e che invece merita ad opinione di chi scrive un posto di tutto rispetto nella filmografia del regista. Non si sa tra l’altro se gioire che una delle opere più libere e fresche passate sinora in Concorso porti la firma dell’autore più anziano in lizza per il Leone d’oro o, al contrario, se sia il caso di chiedersi come mai molto cinema “giovane” presente nelle varie sezioni della Mostra ubbidisca a criteri di messa in scena tristemente logori e si incammini verso sentieri sin troppo battuti.

Sangue del mio sangue è diviso in due parti, collegate idealmente l’una all’altra in virtù dell’ambientazione in uno stesso luogo (le prigioni di Bobbio, paese natale di Bellocchio) in due diverse epoche storiche, con il ritorno di nelle due storie di alcuni personaggi che hanno lo stesso nome ma, almeno in apparenza, una diversa identità.

Il primo episodio, liberamente ispirato alla vicenda della monaca di Monza, racconta il processo intentato contro una giovane suora accusata di avere traviato un sacerdote, fratello gemello di un ricco cavaliere, mentre nella seconda parte un sedicente inviato della Regione Emilia-Romagna tenta di fare da mediatore fra un miliardario russo che vorrebbe acquistare le prigioni e l’attuale proprietario, un misterioso Conte (interpretato dal sempre bravo Roberto Herlitzka) che è forse un vampiro. Sebbene in maniera simbolica e metaforica, le due vicende sono ovviamente destinate a dialogare a distanza.

“Uno dei temi del film – ha raccontato il regista durante la conferenza stampa – è il “vampirismo ambientale”l’appropriazione dei luoghi che in un modo o nell’altro conservano tracce preziose del passato. Per questa ragione, ho sentito la necessità di viaggiare nel tempo e di ambientare una parte del film nel mondo moderno facendone anche un apologo sull’Italia di oggi”.

Tornano, trattati con originale variazione, alcuni dei temi cari al regista: la resistenza dell’individuo contro qualsiasi forma di potere e coercizione (Matti da slegare, Nel nome del padre), la prigionia (Buongiorno, notte), l’ambientazione nel mondo ecclesiastico (L’ora di religione) con più di una virata nel grottesco, come in una straordinaria sequenza ambientata in uno studio dentistico. Ai detrattori che gli contestavano la difficile intelligibilità di più di una sequenza del film, il regista ha risposto dicendo di “non essere interessato ad un’architettura drammaturgica perfetta. Non ho voluto di proposito creare delle connessioni rigide e implacabilmente esatte. Ad esempio, pur senza che nel film se ne parli, è evidente il legame che unisce la Chiesa del ‘600 con la Democrazia Cristiana, che ha per anni vampirescamente succhiato il sangue a qualsiasi prospettiva di cambiamento in Italia. Anche se, per altri versi, la corruzione della Chiesa di quell’epoca rappresentata nel film ben si specchia, purtroppo con la corruzione della società italiana odierna”.

Nel film c’è più di un personaggio che sembra incarnare la resistenza a questa corruzione: il Matto, interpretato da Filippo Timi, oltre ovviamente a Benedetta, la suora che, come la monaca di Monza, viene murata viva per punirla delle sue presunte malefatte sebbene, come ha spiegato sempre il regista, “per quanto io abbia simpatia per i matti e ne ho anche più volte parlato nei miei film, non ho un atteggiamento romantico verso di loro e non credo che essi possano essere capaci di cambiare il mondo. Benedetta, invece, come mostra chiaramente il finale del film, rappresenta nelle mie intenzioni l’immagine di una libertà che non vuole arrendersi”.

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