Bilancio 2016: Viaggio al termine del buio (in sala)

Ringraziando di cuore gli affezionati lettori di questa piccola rubrica, chiudo il 2016 cimentandomi anch’io nell’(ab)usato gioco delle classifiche e delle preferenze, riportando l’elenco dei film da me più amati, quelli a mio avviso graziati da eccessivo successo, sia esso di critica o di pubblico, quelli che, al contrario, avrebbero meritato maggiore attenzione, quelli che mi hanno piacevolmente sorpreso e, infine, di quelli dai quali ci si aspettava di più. Si tratta ovviamente di un’operazione meramente compilativa che semplifica una realtà complessa (quale film è “migliore” di un altro? Quello che ti ha emozionato di più o quello esteticamente più raffinato?) e che deve perciò essere considerata poco più di un semplice gioco messo in atto da qualcuno che guarda, sceglie, seleziona, preferisce, commenta.

I film sono citati in ordine alfabetico e non di gradimento e, tra l’altro, uno dei miei preferiti è Paterson di Jim Jarmusch, per il quale è prevista una prima uscita il 22 dicembre in pochissime città ma che raggiungerà il resto della penisola la prossima settimana.

I migliori: The Assassin di Hou Hsiao-hsien; La Canzone del Mare di Tomm Moore; Carol di Todd Haynes; Il Figlio di Saul di László Nemes; The Hateful Eight di Quentin Tarantino; Heart of a Dog di Laurie Anderson; La Memoria dell’Acqua di Patricio Guzmàn; Neruda di Pablo Larraín (autore anche del bellissimo Il Club, Orso d’argento a Berlino nel 2015); Our Little Sister (capolavoro sottovalutatissimo di Hirokazu Kore-eda); Paterson di Jim Jarmusch.

I sottovalutati: Agnus Dei di Anne Fontaine; Aquarius di Kleber Mendonça Filho; Frantz di François Ozon (forse il film migliore di un cineasta discontinuo); Julieta di Pedro Almodòvar (accolto a Cannes e poi in sala con una certa freddezza, segna invece il grande ritorno di un regista un po’ scolorito); Knight of Cups di Terrence Malick, maestro sempre più prolifico, le cui generosissime opere continuano ad avere sempre meno estimatori; Zootropolis di Byron Howard e Rich Moore, prodotto Disney divertente e istruttivo sulla necessità di fidarsi del prossimo e sulla presa di coscienza che non sempre nella vita si riesce a fare ciò che si sogna ma che la cosa più importante è occupare con dignità e impegno il posto assegnatoci dalla sorte.

Le sorprese: It Follows di David Robert Mitchell, originalissimo horror passato a Cannes nel 2014; Kubo e la Spada Magica di Travis Knight e La Mia Vita da Zucchina di Claude Barras, due esordi nel cinema di animazione che, nel campo dei cartoon, provano a sfidare con intelligenza il colosso Disney-Pixar; Cafè Society di Woody Allen, per il semplice fatto che non amavo un suo film dai tempi di Harry a pezzi; Io, Daniel Blake di Ken Loach, altro regista ultimamente in ombra che ha realizzato un film potente, necessario e sincero che ha trionfato al Festival di Cannes portandosi a casa una Palma d’oro tutt’altro che disdicevole; Lo chiamavano Jeeg Robot, folgorante lungometraggio d’esordio di Gabriele Mainetti e uno dei migliori film italiani dell’anno.

Le conferme: Al di là delle montagne di Jia Zhang-ke che ricorda ancora una volta come il cineasta cinese sia uno dei più grandi talenti della sua generazione; Sully, il nuovo bellissimo parto creativo di Clint Eastwood; Un Padre una Figlia di Cristian Mungiu, premio per la regia a Cannes, ex-aequo con Personal Shopper di Olivier Assayas.

Le delusioni: È solo la fine del mondo, sesto e meno riuscito film del talentuoso Xavier Dolan, vincitore di un immeritato Grand Prix all’ultimo Festival di Cannes; Fai bei sogni, un Bellocchio sicuramente di buona fattura ma meno dirompente, che è parso quasi un compendio del suo cinema precedente; La pazza gioia di Paolo Virzì, tra i film più sopravvalutati dell’anno; The Neon Demon di Nicolas Winding Refn, cineasta con cui difficilmente riuscirò a fare la pace.

Gli invisibili: Limitando queste classifiche alle opere distribuite in sala è necessario specificare che ci sono alcuni film che hanno circolato nei Festival avendo poi una distribuzione quasi inesistente, confinata in pochissime sale di Roma e Milano (talvolta solo della Capitale) e la cui permanenza è stata di pochissimi giorni. Tra essi da citare almeno: Storm Children: Book 1 di Lav Diaz, Educação Sentimental di Julio Bressane (per entrambi i registi, protagonisti di molte notti di “Fuori Orario” di Enrico Ghezzi, si è trattato della prima distribuzione in Italia), Cavallo Denaro di Pedro Costa, L’Infinita Fabbrica del Duomo e Spira Mirabilis (entrambi di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti), il recente I Cormorani di Fabio Bobbio, uno degli esempi di cinema italiano diverso, libero e alternativo, ma destinato a restare fuori dal mercato, vittima dello scarso coraggio di esercenti e distributori.

Per chiudere proprio con il cinema italiano, bisogna dire che questa è stata un’annata tutt’altro che memorabile, sia dal punto di vista artistico che degli incassi. Tra le eccezioni, l’affermazione di Fuocoammare di Gianfranco Rosi, vincitore dell’Orso d’oro a Berlino e del premio EFA per il miglior documentario, il già citato (meritato) successo di Mainetti, quello (assai discutibile) di Perfetti Sconosciuti di Paolo Genovese, David di Donatello per il Miglior Film, oltre al solito Checco Zalone, vero e proprio asso pigliatutto del botteghino con gli oltre 65 milioni di euro di incasso del suo Quo Vado. Infine, una nota lieta: il 2016 è stato anche l’anno dell’Oscar (dopo altri quattro tentativi andati a vuoto) per Leonardo Di Caprio, sebbene per il modesto The Revenant di Alejandro González Iñárritu.

A tutti l’augurio di un anno cinefilo baciato dalla bellezza, dalla libertà e, soprattutto, dal coraggio!

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