“Tirate sul pianista” di François Truffaut, una modesta proposta: (ri)fare il cinema
Il biennio 1959-1960 è un momento fondamentale per la storia del cinema: escono infatti alcune pellicole che possono essere considerate delle vere e proprie opere-spartiacque, almeno per tre motivi: il loro indubbio valore artistico, l’audacia dei temi trattati e le profonde rivoluzioni tecniche e narrative apportate alla settima arte. Mentre negli Stati Uniti si assiste al trionfo di Ben-Hur di William Wyler che batte il record del maggior numero di Oscar mai vinti da un film (11 statuette, record poi eguagliato ma non superato da Titanic di James Cameron nel 1998 e Il Signore degli anelli – Il ritorno del re di Peter Jackson nel 2004), e in Italia Federico Fellini gira La Dolce Vita, in Francia escono tre film epocali: Hiroshima Mon Amour di Alain Resnais, I 400 colpi di François Truffaut e Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, tre opere seminali che segnano l’irruzione sulla scena della Nouvelle Vague, cioè di un nuovo modo di concepire il cinema.
Se volessimo riassumerne in una o due frasi lo scopo (fingendo per un attimo che questa estrema sintesi fosse possibile e/o accettabile), diremmo che la Nouvelle Vague ebbe la meravigliosa e smisurata ambizione di far ripartire il cinema da zero, riavvolgendo all’indietro decenni di pellicola precedenti. Uno dei suoi capisaldi fu la rivalutazione dei generi considerati “bassi” o artisticamente meno rilevanti come il western, il noir o il giallo fino a giungere ad una vera e propria abolizione di qualsiasi gerarchia dei generi. Da qui l’ammirazione, da parte dei giovani cineasti francesi, per autori come Howard Hawks, Nicholas Ray o Alfred Hitchcock.
Proprio il regista di Psycho, uscito anch’esso nel 1960, deve ai giovani ammiratori d’Oltralpe la sua “promozione” da regista commerciale ad Autore, cioè ad artista detentore di un suo stile e portatore di una sua precisa e riconoscibile poetica. Proprio da questa nuova ed originale concezione dei generi da parte di questi agguerriti cinéphiles è possibile partire per approcciare un’opera anomala ed anticonformista come Tirez sur le pianiste, il secondo lungometraggio di François Truffaut, uno dei suoi film più belli e sottovalutati, una vera e propria gemma incastonata tra i (giustamente) celebrati e premiatissimi Les quatre-cents coups e Jules et Jim.
Quando inizia le riprese, alla fine del 1959, Truffaut è reduce dal successo di pubblico e di critica ottenuto pochi mesi prima con il primo episodio della saga di Antoine Doinel, vincitore del premio della regia al Festival di Cannes. Con Tirez sur le pianiste egli sceglie di mutare completamente registro e, insieme a Marcel Moussy, adatta molto liberamente un romanzo noir di David Goodis, Down There, pubblicato in Italia per i tipi Fanucci col titolo Sparate sul pianista ma attualmente fuori catalogo. L’obiettivo e la sfida (vinta) di Truffaut è quello di dimostrare che, partendo da una storia convenzionale e servendosi di un genere cinematografico considerato “minore”, è possibile ugualmente confezionare un film d’autore, un’opera che rechi cioè il sigillo personale e riconoscibile del suo realizzatore.
A differenza di quanto accade solitamente in altri film noir, ci troviamo di fronte ad un’opera in cui i personaggi contano molto più dell’azione e dove l’intreccio, estremamente esile e volutamente poco accattivante, non è altro che un pretesto per consentire al regista di mettere in mostra il suo lampeggiante ingegno, di giocare a confondere lo spettatore attraverso l’introduzione di continue digressioni rispetto alla storia principale. È possibile ravvisare un esempio di questo procedimento analizzando la scena iniziale: un uomo, che poi scopriremo essere Chico, il fratello del protagonista, viene inseguito da due altri uomini. Riesce a seminarli e cade battendo la testa. In un altro film, a questo punto, assisteremmo probabilmente ad un’escalation della tensione o ad un immediato chiarimento sull’identità del personaggio e sui motivi della sua fuga. Invece Truffaut fa entrare in scena un vecchio signore, un personaggio che si rivelerà poi irrilevante ai fini della storia. Costui soccorre l’inseguito, e la scena prosegue poi con i due che si scambiano reciproche confidenze sull’amore, sulla bellezza e la noia del matrimonio, e sull’importanza delle donne.
Un altro esempio di questa continua sospensione dell’azione principale è la meravigliosa sequenza dell’audizione, uno dei momenti del lungo flashback che, circa a metà film, sospende la narrazione lineare per raccontare il passato del protagonista, Édouard Saroyan, il pianista del titolo interpretato da Charles Aznavour. Édouard è stato convocato da un impresario per un provino e, mentre percorre il corridoio che porta all’ufficio dell’impresario, ascolta la musica di un violino proveniente proprio dalla stanza in cui egli dovrà entrare. Si ferma davanti alla soglia della porta che dovrà poi varcare, esita a bussare e si mette in ascolto delle note del violino. Poco dopo la musica cessa, la porta si apre e ne esce una giovane donna con in mano il suo strumento. I due si guardano per qualche istante, poi Édouard entra nell’ufficio dell’impresario per fare la sua audizione. A sorpresa, anziché vedere la ripresa del provino, la macchina da presa si sofferma sulla violinista appena uscita e la osserva mentre percorre il corridoio nella direzione opposta a quella di Édouard continuando a seguirla fin quando essa è in strada. Ad accompagnare i passi della donna, questa volta, è la musica del pianoforte di Édouard: un bellissimo e improvviso carrello all’indietro consente di sottolineare il rapimento della donna che dura il breve spazio di un attimo. È un grande momento di cinema, una sequenza sublime, in cui il regista si prende ancora una volta la libertà di spiazzare lo spettatore, di sospendere la narrazione, per mostrarci invece il fugace incontro tra un uomo e una donna (o, forse, tra l’Uomo e la Donna), vicini soltanto per il breve spazio di un’inquadratura. Con pochi, magistrali tocchi, Truffaut ci ha presentato il momentaneo incrociarsi di due esseri che avrebbero potuto forse amarsi ma che sono giunti l’uno troppo tardi e l’altra troppo presto all’appuntamento del loro possibile incontro amoroso.
In Tirez sur le pianiste si assiste ad un continuo cambio di tono e di registro: si passa dal film d’azione al melodramma struggente (la vicenda tristissima del primo matrimonio di Édouard), dalla storia d’amore al film comico, con i due buffissimi gangster che inseguono Chico nella sequenza iniziale e che sembrano la riproposizione in chiave grottesca di alcune grandi coppie comiche del cinema americano come Bud Abbott e Lou Costello (più noti in Italia come Gianni e Pinotto) o Stan Laurel e Oliver Hardy. È a dir poco singolare, infatti, che proprio le sequenze di maggiore tensione subiscano brusche ed improvvise sterzate trasformandosi in sequenze di straordinaria comicità in cui i personaggi, in apparenza nemici, si mettono a chiacchierare o filosofeggiare su argomenti assolutamente puerili. Ad esempio, la sequenza in cui Édouard e la sua donna sono costretti dai due malviventi a salire in macchina sotto minaccia di una pistola viene svolta dal regista con un dialogo serrato quanto incredibile sulla presunta innata perversità delle donne. O ancora, la scena del rapimento del fratellino minore Édouard, Fido, si conclude con delle improbabili elucubrazioni da parte dei due banditi che descrivono al ragazzo alcuni bizzarri oggetti in loro possesso, come l’accendino con la musica, il congegno che suona per il parcheggio a ore o la stilografica col pennino retrattile.
Insomma, c’è un continuo e costante gioco di innalzamento ed abbassamento della tensione con un conseguente e studiato effetto di straniamento. A questo riguardo, Truffaut ebbe a dichiarare: “Per Tirez sur le pianiste si è trattato di non condurre mai una scena là dove ci si attende che vada a finire. Si crede che il tal personaggio stia per morire, ed è l’altro che muore…si crede che la storia volga al tragico, ed è il burlesco…bisogna sempre, sempre cambiare direzione, proprio nel momento in cui le cose stanno per assumere una piega convenzionale”, una serie di affermazioni che corrispondono ad una vera e propria dichiarazione di poetica.
Per questa ragione, Tirez sur le pianiste è ad opinione di chi scrive un’opera straordinaria, tra le più libere e coraggiose del grande cineasta francese, un film meravigliosamente sbilanciato ed eccentrico che, attraverso la riproposizione di alcuni topoi del cinema noir, opportunamente sovvertiti se non addirittura accantonati, ci parla di gloria e decadenza, di ascesa e di caduta, fino a diventare dolente riflessione sull’inafferrabilità della felicità e sulla precarietà della vita e dell’amore. Più che un classico: una pietra miliare.
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