‘Il Cuntiere’ – Nati a Gaza: vita di Ahmed Muhanna e dei bambini pittori
di Davide Speranza

«Il cielo non è il mio tetto
la terra non è il mio letto
sono straniero anche alla mia ombra
e solo come fossi l’ultima stella».
Sono i versi del poeta palestinese Yousef Elqedra, che ho scelto per inaugurare la rubrica de Il Cuntiere e la prima storia, quella dell’artista Ahmed Muhanna. Essere stranieri nella propria casa significa distaccarsi dal corpo che ci appartiene, dalla voce, dalla vista e da qualsiasi elemento percettivo che renda un uomo consapevole della propria identità. Se strappi il volto di un popolo, lo cancelli dalla Storia e dallo spazio (emotivo e di rappresentazione). È accaduto nei secoli passati, accade oggi, è questo il nostro tempo, non più nonni, partigiani, nazisti, profumo d’antico e atomiche su giapponesi. È questo il nostro tempo nel quale un genocidio diventa guerra d’opinione, tifo da stadio, un pensiero relativo tra una sbirciatina su wikipedia e un’altra tra i pochi ricordi di appunti scolastici vergati con il sangue e sul cui margine superiore l’intestazione recava il titolo Questione palestinese.
Siamo investiti da uno tsunami quotidiano che ha assunto le sembianze di una bocca spalancata (quella stessa che Edvard Munch dipinse e della cui origine scrisse: “Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura”). Il pittore norvegese seppe ben rappresentare l’angoscia di un secolo alle porte, il Novecento, ma non avrebbe potuto immaginare che quel grido di dolore ce lo saremmo portati dietro anche nel nuovo millennio, tra distruzione del sacro e contaminazione dell’anima.

Ho conosciuto Ahmed Muhanna attraverso la curatrice d’arte Lavinia Prota, napoletana doc e viaggiatrice irriducibile. La giovane promoter si trova in Svizzera e ha co-curato la collettiva Palestine invites for Art che si è svolta dal 20 luglio al 10 agosto a Zolbrück, una località della regione Emmental, non lontano da Berna e negli spazi di una fattoria culturale chiamata Wanner 433. Due piani, all’interno dei quali, Lavinia ha esibito un gruppo di artisti di Gaza, di origine iraniana, kurda, e svizzeri. Guest star era Ahmed. Classe 1984, nato a Deir Al-Balah, Ahmed Muhanna si trova (mentre scrivo) sotto i bombardamenti israeliani. Ha moglie e figli. In passato ha partecipato a diverse esposizioni collettive, tra cui quelle all’Università di Al-Aqsa nel 2002, 2004 e 2006, la Palestine Exhibition of Contemporary Art e la Homeland Love all’Arts and Crafts Village nel 2017, e la Here is Palestine a Dar Al-Ghoussein nel 2020.
Mi hanno colpito i suoi quadri, come anche il fatto che sia un arteterapeuta per bambini. Quest’uomo, tra macerie e deflagrazioni, cerca di riesumare il gioco del sorriso dai palazzi distrutti, organizzando laboratori di pittura nella cocciuta convinzione che l’arte possa ancora custodire l’anima. E i bambini rispondono, disegnano, sopravvivono a se stessi e all’urlo del genocidio, impugnando pennelli e pennarelli. Lo fanno con colori sgargianti, la morte negli occhi, gli occhi che devono avere i bambini. A questo proposito mi viene in mente Gianni Rodari che ne La Grammatica della Fantasia scrive: «…l’immaginazione non è una qualche facoltà separata dalla mente: è la mente stessa, nella sua interezza, la quale, applicata ad un’attività piuttosto che ad un’altra, si serve sempre degli stessi procedimenti. E la mente nasce nella lotta, non nella quiete».


Il nostro Rodari conosceva bene la mente dei bambini, quanto possa essere forte e spugnosa, egli stesso ha scritto poesie straordinarie sulla guerra dal punto di vista dei più piccoli. La fantasia è la vera arma contro la guerra. E allora Ahmed si inventa qualcosa che prima non c’era e acquista il sapore di una provocazione costruttiva. Inizia a disegnare sulle scatole degli aiuti umanitari, quei pochi che ancora riescono ad arrivare a Gaza.
Tramite Lavinia ho contattato Ahmed Muhanna. Non era possibile pianificare una videochiamata, né una telefonica. Troppo pericoloso. Abbiamo continuato a scriverci via WhatsApp, io inviandogli poesie di Ungaretti (Veglia, San Martino del Carso, La Pietà), lui a rispondermi a fatica, lasciando anche vuoti di giorni durante i quali ero pervaso dal terrore che una bomba avesse spazzato via lui e la sua famiglia. Eppure abbiamo ricucito le distanze, a strappare la storia della sua vita e del suo percorso di uomo. Non potrò rilevare dove si trova, né dare indicazioni specifiche in merito. La sua sopravvivenza è appesa a un filo.


«Sono nato a Gaza – ha iniziato a raccontarmi – La terra che mi ha conosciuto prima che io conoscessi me stesso, e ha accolto la mia infanzia con tutti i suoi colori: il mare, i suoni dei minareti al tramonto e le risate dei bambini nei vicoli. La mia data di nascita non è stata solo un giorno di passaggio, ma l’inizio di un viaggio pieno di conflitti tra sogni e realtà. I ricordi di Gaza sono pieni di contrasti: giocare a calcio nelle strade sabbiose, l’odore del pane caldo all’alba, le voci dei venditori nei vecchi mercati. Ma ci sono anche i suoni dei primi bombardamenti e le notti in cui dormivamo a lume di candela. La mia infanzia è stata un misto di gioia semplice e paura precoce».
Suo padre ha sempre cercato di garantirgli una vita dignitosa e sua madre è stata la madre premurosa che gli ha insegnato pazienza e forza. I fratelli e le sorelle portano i fardelli della terra natale, ciascuno a modo proprio. Una famiglia in apparenza come tante, come le nostre, radice che dà stabilità. Ma sullo sfondo del loro stare al mondo c’è una guerra perenne. A salvare Ahmed è stata la pittura. 
«L’arte mi accompagna fin da bambino – mi scrive – Disegnavo sui muri di casa e sui quaderni di scuola più di quanto facessi a lezione. Ricordo la prima volta che ho capito che disegnare non era solo un gioco, ma un messaggio: quando ho disegnato il volto di un bambino che piangeva dopo che il quartiere era stato bombardato. Quel giorno ho capito che l’arte era il mio linguaggio, il mio destino e la mia voce che nessuno poteva confiscare. Ho studiato nelle scuole di Gaza, quelle che venivano costantemente ricostruite dopo essere state danneggiate dalla guerra. I muri erano pieni di buchi di proiettile, ma dentro le aule portavamo penne e sogni. L’istruzione per me non era solo studio, ma una sfida per sopravvivere e una determinazione per avere un futuro».
L’arte come destino. Ahmed impara a dipingere grazie ai suoi insegnanti a scuola e da alcuni artisti locali di Gaza. «Ma il mio più grande maestro è stata la strada – continua – i volti delle persone, i pianti dei bambini e il silenzio delle madri. Questi sono stati i miei veri maestri. Sono stato molto influenzato dai dipinti di Picasso, in particolare da “Guernica”, così come da Francis Bacon e Goya. Ma cerco di creare un mio linguaggio che trasmetta il dolore e lo spirito della mia terra. Per me, Gaza non è solo una città. È identità, memoria, ferite e speranza. È una grande prigione e una casa accogliente allo stesso tempo. Rappresenta la sfida di fronte alla morte e l’insistenza nel forgiare la vita sotto le macerie. Gaza è lo specchio in cui vedo la mia debolezza e la mia forza insieme».
In questi mesi, con la sua piccola famiglia («il mio mondo») vive in uno spazio temporaneo e angusto dopo aver perso la casa. Quando la tragedia si è abbattuta sulle loro teste, Ahmed era immerso nel suo lavoro. «Stavo dipingendo quando sono iniziati i bombardamenti più intensi. Improvvisamente, i colori davanti a me si sono trasformati in cenere e il dipinto è diventato un urlo. Da quel momento, la mia vita quotidiana è diventata una tela aperta alla paura e alla perdita, ma anche alla resistenza attraverso il colore».
Nei suoi dipinti prevale il grigio, come se persistesse un’eterna Guernica. Quella stessa panoramica che Picasso realizzò tra grigi e spettri – la cui copia è bene ricordare, oggi si trova all’Onu – la ritroviamo nelle opere di Ahmed. Corpi e volti dai segni neri, contorti, linee pesanti quasi cancellano i lineamenti; nasi, occhi, labbra diventano parte di un dolore scarabocchiato: è la poetica della sofferenza. Anche quando usa il colore, uomini, donne e bambini sembrano anime dannate senza identità.
«Parto dal caos: macchie nere o colori discordanti – dice – Da questo caos emergono volti e corpi, alcuni urlanti, altri silenziosi. La mia filosofia è lasciare che il dipinto respiri come respirano le persone qui: tra la vita e la morte, tra la speranza e la disperazione. Il tema dominante nel mio lavoro è il palestinese schiacciato che cerca di dire: “Sono ancora qui”. Tra le mie opere c’è un dipinto di un bambino con una mano amputata che suona il violino, con cui volevo dire che la vita è più forte delle ferite. Un’altra opera, intitolata “Sogni sotto le macerie”, racconta di bambini che cercano i loro giocattoli tra le pietre. Ogni mio dipinto è una testimonianza di ciò che stiamo vivendo. Usavo colori a olio e acrilici e tele. Ora uso resti di cartone e scatole di aiuti umanitari, e a volte colori a base di carbone e cenere. Ho sentito che questi materiali hanno un significato più profondo dell’essere semplici strumenti. Il cartone che contiene il cibo può essere una testimonianza visiva della nostra sofferenza. È un riciclaggio del dolore in forma artistica, che trasforma oggetti morti in nuova vita».

E poi l’arteterapia, attraverso la quale Ahmed percepisce la resistenza dei piccoli palestinesi. «È iniziata quando ho scoperto che i bambini disegnano il loro dolore in modo più semplice e onesto di noi adulti. Ho deciso di fare dell’arteterapia un mezzo di liberazione e di creare uno spazio sicuro in cui i bambini possano sognare. Do loro carta e colori e dico: “Disegnate ciò che avete nel cuore”. Alcuni disegnano case distrutte, altri un grande sole o il mare di Gaza. I bambini mi stupiscono per la loro capacità di sognare nonostante la devastazione. I loro sogni sono semplici: una casa sicura, una scuola, un piccolo giocattolo. L’arte non ferma la guerra, ma ferma la morte interiore. È un mezzo per proteggere le nostre anime dal collasso totale».
E il futuro? A sentir parlare di riviera per privilegiati o della trasformazione di Gaza in un enorme parco giochi turistico, tutto risuona come un sacrilegio, bestemmia contro l’umanità. «Il futuro di Gaza dipende dalla giustizia – spiega Ahmed – Ma nonostante tutto, risorgerà, perché contiene una generazione che non sa arrendersi. Vedo il mio futuro a Gaza, ma non nego che a volte penso di vivere altrove per respirare. Ciononostante, le mie radici rimarranno qui. L’idea di chiedere asilo politico mi è passata per la testa, ma il mio cuore si rifiuta. Credo che il mio posto sia qui, dove devo testimoniare. La mia Guernica sono i quadri che dipingo con il sangue di Gaza. Forse Alive and Dying è la mia Guernica, perché racchiude la nostra vita quotidiana. Ecco, per me, l’arte è principalmente una testimonianza umana, ma non può essere separata dalla politica quando tutta la tua vita è sotto assedio e bombardamenti».

Anche i luoghi di cultura e arte sono stati ridotti a macerie e polvere. L’organizzazione PEN America ha pubblicato un documento “All that is lost” che testimonia i danni del patrimonio culturale. Secondo il rapporto e l’analisi condotta dal progetto EAMENA (Endangered Archeology in the Middle East and North Africa) in collaborazione con il Centre for Cultural Heritage Preservation (CCHP) 226 siti storici hanno subito danni, come l’Università Islamica di Gaza e la sua biblioteca di 130mila volumi, l’Università Al-Azhar, l’Università Al-Israa e il museo nazionale contenente più di 3mila manufatti archeologici, e ancora la distruzione di undici biblioteche e otto case editrici e tipografie, la Biblioteca Pubblica di Gaza, gli Archivi Centrali di Gaza City, la Edward Said Public Library a Beit Lahia (la prima biblioteca di lingua inglese di Gaza, fondata dal poeta e studioso Mosab Abu Toha), la Biblioteca Samir Mansour, la Grande Moschea Omari.

«Centri, gallerie e biblioteche sono stati distrutti – racconta Ahmed – I bombardamenti non hanno lasciato nulla. Ma la cultura non può essere bombardata, perché vive nelle nostre anime. Vedo case distrutte, volti stanchi, bambini che portano brocche d’acqua e madri che cercano il pane. Ma vedo anche piccoli segni di vita: una rosa che cresce tra le pietre, un bambino che ride nonostante tutto. Per questo l’arteterapia può salvare un pezzo di Gaza. Ogni workshop è un tentativo di salvare un ricordo o un piccolo sogno. L’arte costruisce una nuova Gaza nell’immaginazione dei bambini. La mostra “Palestine Invites for Art” è nata dalla convinzione condivisa che la voce dell’arte debba raggiungere il mondo e che la sofferenza di Gaza debba essere vista a colori, non solo nei notiziari. Quando il pubblico guarda i miei dipinti credo di volerli far sentire, non solo vedere. Che tocchino il dolore e ricordino Gaza nei loro cuori».
Certo è stato complicato spedire le sue opere in Svizzera. Ahmed si è visto costretto a chiedere aiuto ad amici e organizzazioni che sostengono la cultura palestinese. È stato un viaggio difficile, ma ha portato la sua voce in giro per il mondo. C’è da chiedersi se un uomo così abbia conservato ancora un angolo per sognare, se in lui possa sopravvivere la grazia in mezzo al terrore. «Sì – ribatte Ahmed – a volte la vedo nel momento in cui un bambino viene salvato da sotto le macerie, o in una piccola risata in mezzo alla distruzione. Questi momenti mi dicono che il futuro è possibile. Il mio sogno è vivere in una casa sicura con la mia famiglia, senza paura, senza guerra. Che la mia voce e i miei dipinti raggiungano il mondo e che Gaza sia presente nei più grandi musei. Agli occidentali direi: non guardateci come numeri al telegiornale. Siamo esseri umani che amano, sognano e creano».

Così, per un attimo mi conforta, i suoi desideri non sono svaniti nel sangue. Gli piacerebbe esporre a Berlino, Parigi e New York, a Tokyo. Alla Biennale di Venezia, presenterebbe un suo dipinto Dreams Under the Rubble, perché porta con sé le voci dei bambini e la voce di tutta Gaza.
«Il mio messaggio sarebbe: “Restiamo”. E ai bambini direi “sognate sempre e non lasciate che nessuno vi rubi l’infanzia, come è successo a noi”».
La mia ultima domanda è stata «Se vi guardate le mani, cosa vedete?».
Ahmed mi ha risposto così: «Vedo uno strumento di resistenza. Le mie mani non sono solo un corpo; sono la mia finestra per trasformare il dolore in arte e le lacrime in colore».


