Intervista a Giulio Baffi: “In Italia manca la visione di grande corpo sociale nazionale”

di Davide Speranza 

«Che cosa faccio io? Io faccio di mestiere, dedicando 18 ore della mia giornata, l’untore. L’untore manzoniano, quello che andava a contagiare. Io faccio di mestiere quello che contagia, fa venire il desiderio di andare a teatro o di fare teatro. Perché due sono le categorie che si possono rapportare al teatro, quelli che ci vanno e quelli che lo vedono. Alcuni lo fanno e ci vanno pure». Era il 2008 (durante Universo Teatro, festival internazionale di teatro universitario) quando Giulio Baffi (che già in un’altra occasione ha rilasciato un’intervista al nostro periodico), davanti a una platea di giovanissimi studenti, cercava di spiegare cosa facesse per vivere. E oggi – ricordando un passato che deve essere necessariamente presente (altra indicazione di Baffi) – oggi che viviamo tempi di Covid, si può allargare il cuore e la mente a sentir parlare dell’esistenza di altro tipo di contagio, quello della narrazione, della cultura, dell’anima. Quasi ci si stava dimenticando.

Il critico napoletano era tra le centinaia di persone scese in Piazza del Gesù Nuovo, lo scorso venerdì (30 ottobre), in segno di protesta contro la chiusura di teatri e cinema. Era lì, a osservare, a dialogare, come sempre vicino ai giovani, ma anche deluso. Ci siamo appartati sul marciapiedi, non si è risparmiato, mentre le voci degli attivisti microfonati invocavano redditi e tavoli di concertazione con il Governo. Giulio Baffi il teatro lo ha sempre mangiato come i bambini di una volta mangiavano pane e alici. Ne ha divorato ogni aspetto, dalla recitazione all’organizzazione, fino a ricoprire incarichi importanti – esemplare la direzione del teatro San Ferdinando, benedetta da Eduardo – e approdare in veste di critico sulle pagine dei quotidiani l’Unità e la Repubblica. Un destino segnato per uno che, al liceo classico Umberto I, si era cimentato in Aspettando Godot e vedeva muovere su quello stesso palco scolastico i passi di un giovane Vittorio Mezzogiorno.

Giulio Baffi, lei conferma di essere un critico militante. Nel senso che milita nel e per il teatro. Perché ha deciso di raggiungere i manifestanti?

Sono qui a guardare e a partecipare.  Viviamo una crisi terribile, in cui si inserisce male la crisi dello spettacolo che ancora non riesce a essere corpo sociale riconosciuto. Mi sembra un peccato che questo mondo stia perdendo una grande occasione che scaturisce da un orrendo approccio politico di affrontare la crisi. Non vedo e non sento né dall’una né dall’altra parte parlare di progetti. Il ristoro è immondizia, se non accompagnata da un progetto. Continuo a sostenere che il mondo dello spettacolo è la grande azienda nazionale diffusa sul territorio, ma non ha i capo azienda, che dovrebbero essere i pilastri fondamentali ma non riescono a essere rete. Questa grande azienda non può essere paragonata a un quadro di Picasso o una scultura di Prassitele. Non può appartenere ai Beni, ma al Lavoro, è diverso il soggetto di riferimento. Questo significa un cambiamento enorme dell’organizzazione e dei referenti. Il rapporto tra committenza e “uso dello spettacolo”, che passa attraverso tutti i lavoratori visibili e invisibili, è un rapporto malato in Italia, deve essere trasformato. Non vedo purtroppo una indicazione politica e questo mi scoraggia e mi addolora tantissimo.

Quali sono le voragini sistemiche nei confronti della cultura nel nostro Paese?

La cultura è vista come un oggetto bello, un ornamento, come una pietra preziosa della corona, non si riesce a vedere la cultura come impresa, come progetto, come azienda, termine che viene rifiutato con orrore. Se è grande azienda, deve avere regole aziendali, non di profitto, non bieche e del solo guadagno, ma progettuali, di crescita e investimento. Tutto questo non lo vedo.

Se oggi fossero in vita gente come Eduardo, Carmelo Bene, Annibale Ruccello, che cosa direbbero?

Ognuno di loro direbbe qualcosa sicuramente. Eduardo cercherebbe di recuperare la funzione sociale, Ruccello sarebbe forse solidale, Carmelo Bene sarebbe irritato e cercherebbe di essere scandaloso. Ma adesso mi dico… tutti quelli che hanno lavorato insieme a Eduardo, a Bene, a Ruccello – sono tanti, li ho conosciuti – e hanno fatto sì che queste tre persone fossero miti del nostro teatro, tutti questi oggi sono fortemente traditi.

Tradimento?

Sì. Manca la visione di grande corpo sociale nazionale. Niente come lo spettacolo o una tentacolare rete, come quella che c’è in Italia, è frantumata e incapace di fare corpo.

Immagine di copertina da youtube.com

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