Quella frase “Siamo giovani e ci dobbiamo divertire” risuona angosciante e totalizzante

Durante quei servizi dei telegiornali sugli affollamenti della movida, dalle interviste ai giovani mandate in onda si ascolta spesso questa frase: “Siamo giovani e ci dobbiamo divertire”. Non so se sia una scelta sistematica e mediaticamente strategica (sull’emergenza coronavirus il gioco degli addebiti delle responsabilità continua ad essere subdolo), ma è un ripetitivo che si verifica spesso e, per nulla lontano dalla realtà e dai pensieri dei ragazzi, ha un suo significato. Quella frase, “Siamo giovani e ci dobbiamo divertire”, conserva una mistica totalizzante. Un’esecuzione dell’esistere secondo protocollo. Essere e dovere messi insieme dicono già tutto.

Qualcuno obietterebbe secondo un ambiguo postulato per cui se a un giovane, o in generale a una persona, non vieti, questa intenderà il consentito. In parte, nella natura delle cose, può essere così, ma non è detto che sia un così giusto. Ed è proprio in questo automatismo che rischia di radicarsi l’innesco a quel genere di percezione dei comportamenti dettati dal dovere e dal potere tradotti da una formula in cui essere e dovere si combinino da reagenti disposti per condannare e non per liberare. Un non luogo a procedere, per dirla alla Claudio Magris, con l’inganno governato da un’ebbrezza che confonde le ragioni della condizione e dei suoi desideri.

Può ridursi a uno spazio così piccolo la dimensione di un libero arbitrio che invece dovrebbe guardare alla realtà in maniera molto più complessa? Siamo così sicuri che la libertà sia una tensione dal verso che dall’interno all’esterno sprigioni manifestazioni istintive e spregiudicate? Un verso che, non a caso, rassomiglia a quello della politica di oggi.

Aveva ragione Pasolini, che andrebbe letto ben oltre i soliti scritti da nomenclatura iconografica di massa (tanti, troppi scrittori sono vittime di questo abuso del limite alla loro conoscenza), quando dava del conformisti ai giovani. E hanno creduto male quelli che hanno inteso solo l’aspetto dell’adesione alle cose senza conoscenza e coscienza. S’è trascurato il connubio essere e dovere. Le epoche ne hanno elaborato uno germinato dentro ognuno di noi. Quel libero arbitrio si è trasformato in uno statuto dittatoriale privo di giudizio, comandato da se stesso a respingere e irridere ogni occasione di crisi.

Sia chiaro che qui per crisi s’intende il suo significato originario, quello che per i greci e i latini nella sua doppia radice si riferiva ai verbi separare e scegliere. Laddove la parola crisi significava cernere la scelta giusta, dopo aver osservato un fenomeno in virtù delle sue separazioni e dei suoi discernimenti. E, a proposito dei greci e di Pasolini, è un saggio raccolto tra le Lettere Luterane, intitolato I giovani infelici, in cui Pasolini descrive l’infelicità giovanile come l’effetto di quella colpa dei padri ricaduta sui figli, rievocando il motto tragico che nella letteratura classica transitava per enunciazioni implicite e depositarie di una verità insita, a tratti scontata.

Nel 1975, Pasolini “condanna” esplicitamente i giovani. Il suo “condanno”, ripetuto a più riprese nel suo saggio, viene definito come “cessazione di amore”, che, in questo caso, non dà luogo all’odio, ma, appunto, alla condanna. Condanna a cui segue la punizione di vivere in perpetuo secondo uno statuto democratico che illude di essere felici e di affermarsi secondo se stessi. Una tragica incompatibilità ad affrontare il proprio tempo e i suoi eventi attraverso la ragione, senza quel “partito preso della vita, che è puro qualunquismo”, a dispetto di una totale assenza di senso di colpa perché quella colpa è irrimediabilmente composta e alimentata da un processo che si origina in un primordiale rapporto padri figli.

“I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica, squallidamente barbarica. Oppure, sono maschere di un’integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà. Dopo aver elevato verso i padri barriere tendenti a relegare i padri nel ghetto, si son trovati essi stessi chiusi nel ghetto opposto.”

Ecco che forme ambigue e velenosamente relative come il desiderio e la volontà s’inaspriscono dentro il dover essere e agire secondo un’incosciente, presuntuosa e arrogante regressione. Quale maturità è sperabile davanti a un’emergenza che richiederebbe una saggezza che oggi, tra giovani e adulti, in pochi possiedono? Permane la punizione, che oltrepassa la loro sfera esistenziale e, come ogni punizione di ogni epoca che si rispetti, si concretizza coi suoi effetti devastanti.

In questo grado sanzionatorio maturano quelle illusioni per le quali gli occhi serrano un’invocazione alla felicità, non la felicità. Occhi che non si chiudono più per provare a guardare in faccia i pensieri, ma per cancellarli. Povera civiltà quella che usa lo sguardo come colpo di spugna.

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