Covid19

di Eliana Petrizzi

Fino a tre mesi fa, la domenica mattina sotto il mio balcone passavano frotte di ciclisti; sentivo gli schiamazzi con cui si salutavano, il suono dei raggi delle ruote a folle, e mi veniva un brivido di gioia perché sapevo che di lì a poco sarei uscita anch’io. Suonavano le campane delle chiese, passavano auto e motorini, uomini e donne correvano per strada. Oggi il silenzio è completo. Le strade sono deserte, sotto casa e a perdita d’occhio. Un elicottero dei carabinieri sorvola la zona. Gli animali si sono ripresi i propri territori: sento il canto di uccelli mai ascoltato prima d’ora. Tutto brilla nell’assenza degli uomini, che immagino splendesse agli inizi della Creazione. Da sportiva, non avrei mai pensato di poter desiderare così ardentemente il maltempo durante il week-end. Una malinconia strana s’insinua giorno dopo giorno a fitte sottili e continue, come aghi in una bambola di pezza. Di fatto, non posso dire di stare male. In casa ho persino una dignitosa scorta di cioccolato fondente per i momenti di sconforto. Mi viene da pensare ai miei nonni in tempo di guerra e, se immagino di dover vivere un giorno solo ciò che vissero loro per mesi, non ce la faccio e mi vergogno di questa mia malinconia, che neppure ha la dignità di una vera e propria pena. Non mi mancano neppure le cose che facevo prima. Penso anzi a tutte le volte che sono uscita di casa inventandomi commissioni del tutto superflue o appuntamenti con persone che non mi interessavano, pur di cambiare aria. Per tutte quelle uscite sprecate, ecco ora una pari quantità di occasioni proibite. Capisco allora cos’è questa malinconia. Non è perché non posso andare qui e là: è capire quanto poco ci vuole a cambiare radicalmente ogni cosa senza averlo messo in conto, senza il nostro consenso, e quanto tutto sia fragile. È lo stare stretti in uno spazio che rischia di diventare estraneo per eccesso di familiarità.  È la paura che di qui a poco tempo, anche le cose in cui avremmo ritrovato utilità e piaceri domestici perderanno il loro smalto, lasciando la ruggine di una grata troppo stretta. Impermanenza, mutevolezza, transitorietà: si fa presto ad accettarle quando le si pensa in chiave filosofica o religiosa. Ma quando accadono nella nostra vita anche in dosi minime, quando ci troviamo dinanzi ad esse corpo a corpo è tutta un’altra cosa, e non si è mai preparati. Ma la causa è giusta e chiama tutti noi a superare la prova.

Dal pipistrello killer al complotto macroeconomico, ci si perde ogni giorno in un caleidoscopio di ipotesi, dati, previsioni che lasciano attoniti ed impotenti. Ma neppure possiamo insabbiarci aspettando che la tempesta passi: rifiutare l’informazione è ignoranza dolosa. Certo, affronteremmo molto meglio tutto questo se conoscessimo la verità. Ma la verità, si sa, non esiste. Ogni giorno una versione, un cambiamento, una verità dichiarata o nascosta. Non è facile orientarsi nel buio: si va a tentoni, si sbatte e si inciampa, e rialzandosi si sbaglia l’appiglio. Ascolto ogni mattina un telegiornale, e francamente non ho idea di quando scollineremo. Per qualche stolto accanimento penso sempre bene di tutto, convinta che in fondo mai nulla verrà scalfito e che ogni cosa tornerà rinvigorita dalla potatura. Ma quante cose saranno cambiate definitivamente? E in che direzione? Bastano davvero pochi mesi per decapitare le vite di tutti e le condizioni di un intero Paese? E se questo dovesse accadere, cosa concluderne? Dopo l’ultima guerra del secolo scorso, la ricostruzione fu sostenuta da un entusiasmo vigoroso perché c’era una direzione chiara verso cui andare, o almeno verso cui non si poteva e non si doveva più tornare. Ma oggi?

E così, pur avendo tempo, passa anche la voglia di fare le cose rinviate da anni. Le telefonate tra i pochi amici che ci si accorge di avere, sono bengala lanciati dai superstiti di una catastrofe nel deserto. Poi, chiuse le telefonate e i libri e il computer, mi metto a pensare agli altri e a ciò che fanno. Molti in questi giorni preparano il pane in casa; sui social è un continuo postare foto e ricette. In fondo non è necessario; i supermercati ne vendono di tutti i tipi, e non manca. Forse allora, è il segno di una civiltà che sente il bisogno di tornare verso modelli più autarchici, più raccolti, più controllabili, fatti anche di coesione sociale, di calore condiviso, oltre che di sacrosante cose semplici ed essenziali. Certo il sentimentalismo non serve, ma tante volte una strada possibile riesce a indicarla. Ognuno cerca di andare avanti come può: c’è chi calca la mano sul dolore proprio e su quello degli altri, e chi preferisce offrire momenti di leggerezza.

Per me il confino domestico si sta dimostrando molto utile. Ho tornito oggetti che avevano spigoli, portato luce in luoghi che stavano all’ombra. Se non siamo stati contagiati e i nostri cari sono in buona salute, in momenti di oggettiva difficoltà si può approfittare degli effetti collaterali della crisi che, come etimologia insegna, aiuta a discernere, a fare selezione, a rivedere la gerarchia delle priorità nei comportamenti e nelle relazioni; ma pure a concedersi qualche innocua vanitas utile a mantenere un’indispensabile quota di ottimismo. Immagino che nelle grandi città lo scenario sia metafisico, alienante, talvolta spettrale. Ma in un paese circondato da campagne e colline com’è il mio, il silenzio e la pace di questi giorni lasciano in giro una luce calda che cura. Non si vive solo di paura. Il panico porta pericolosamente a galla fragilità insospettabili anche nelle persone che credevamo più forti. In momenti di sacrificio e di difficoltà, fa dunque bene orientare l’anima alla bellezza in tutte le sue forme. Le gite, la natura, i viaggi, lo sport e tutti i piaceri della vita, a saper aspettare maturano e si riscaldano, e quando torneranno saranno più giovani e veri di prima.

Ho dato al mio tempo curve più ampie, luci morbide, voci più basse. I miei giorni erano La camera di Van Gogh ad Arles; sono diventati un interno di Vermeer. Ho imparato a godere e a ringraziare anche di quei 200 metri fatti a piedi per andare al supermercato, dei cinquanta minuti a pedalare sui rulli al balcone, davanti ad un paesaggio fatto di case silenziose e di ciliegi in fiore. Mi muovo lentamente, ritrovando in questo ritmo nuovo la libertà del respiro lungo. Nella lista della spesa c’è scritto: ‘Vino bianco, pasta corta, lampadine’: niente di necessario. Faccio amicizia con quanto tengo in casa, ne ho rispetto, me lo faccio bastare. Quando proprio sono a corto, esco e provvedo. Pulisco i ripiani della libreria, poi passo ai cassetti in basso, colmi di foto, anche quelle da sistemare. Passandole in rassegna contabilizzo il passato. Mi manca la ragazza che ero, la sua sfrontatezza, la sua furiosa incoscienza, il suo coraggio che negli anni un poco si è spento, lasciando posto a ragionevoli dubbi e a troppo pensiero intorno alle cose, che in questo modo hanno smesso di prendere il largo. Trovo anche le centinaia di foto scattate nel tempo al luogo in cui vivo, soprattutto alle strade di campagna, con dettagli di fiori, foglie, alberi, piccoli animali, campi e boschi: sapevo che un giorno mi sarebbero servite.

Piani per il futuro: scongelare i progetti interrotti, lasciar maturare bene al buio lo zucchero della frutta, affinché una volta pronta la polpa sia irresistibile. Nel frattempo, occuparsi di tutto ciò che è bene eliminare, cose e persone in egual misura. In ogni caso, non accanirsi mai troppo sulle cose: ordine ossessivo, compulsioni maniacali e micro sistemazioni possono lasciare un penoso senso di incompiuto: è quello il segno che non era lì che bisognava ordinare.

In conclusione però, al di là di faccende personali e di considerazioni sentimentali, un fatto è sicuro: l’emergenza in corso non ha svelato solo l’impotenza di ogni individuo, ma ha messo a nudo tutte le fragilità e i limiti delle grandi potenze. Abbiamo fallito, e miseramente. La pandemia ha mostrato con impietosa evidenza quella che Federico Rampini definisce “la ritirata della globalizzazione”, rendendo visibile la vulnerabilità di poteri economici interconnessi e di catene produttive troppo estese, dove basta un incidente più o meno serio in punti strategici per paralizzare tutto e tutti. E dove alla fine, a contare per ciascuno non sono né poteri economici interconnessi né catene produttive troppo estese, ma che la notte passi, e che se ne esca vivi.

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