Cannes 2019, giorno 9: Xavier Dolan ritorna a casa

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Mentre mezzo mondo aspetta ancora di vedere la sua ormai penultima opera The Death and Life of John F. Donovan, Xavier Dolan torna in Concorso a Cannes tre anni dopo il Grand Prix ottenuto, con buona dose di generosità, con È solo la fine del mondo. Matthias et Maxime, ottavo lungometraggio del regista quebecchese, mette al centro i due protagonisti del titolo, che sono amici d’infanzia, e che un giorno prendono parte a un cortometraggio amatoriale girato da una loro amica, dove il copione prevede lo scambio di un bacio. Questo episodio, apparente anodino, fa conoscere ai due le loro preferenze, li rende consapevoli dei reciproci sentimenti, sconvolgendo l’equilibrio della loro cerchia sociale di amici e finendo in breve per mettere in crisi le loro esistenze. La situazione è resa maggiormente complicata dal fatto che Matthias ha sempre represso le sue tendenze, e dal fatto che Maxime è in partenza per l’Australia, dove ha intenzione di restare per due anni.

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Il nuovo film dell’enfant prodige del cinema mondiale, che esordì alla verde età di diciannove anni, si presenta come una sorta di ritorno a casa dopo la sbornia del film precedente, che lo aveva visto impegnato in una produzione di ambientazione statunitense, molto più sontuosa, che poteva contare sulla presenza nel cast di attrici del calibro di Natalie Portman, Susan Sarandon e Kathy Bates. Con Matthias et Maxime Dolan rimette in scena se stesso, anche fisicamente, scegliendo di mettersi sia dietro che davanti la macchina da presa per dar vita al personaggio di Maxime, in piena crisi esistenziale, che lo rende lontano parente di Hubert Minel, l’adolescente da lui interpretato dieci anni fa nel sorprendente esordio J’ai tué ma mère. Accanto a lui, oltre a Anne Dorval, nel ruolo di una madre particolarmente problematica, Dolan delinea il ritratto dell’umbratile Matthias che, a differenza dell’amico, vive in un ambiente familiare più sicuro e protetto, accudito da una madre più solida, ha una fidanzata e una professione redditizia e ben avviata in uno studio legale, nel quale lo aspetta perdipiù un avanzamento di carriera.

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Matthias et Maxime, che ha avuto una buona accoglienza qui sulla Croisette, è dunque la storia di due personaggi costretti alla separazione in virtù di un percorso di vita radicalmente diverso che porta uno dei due a cercare la sua strada mentre l’altro è già professionalmente realizzato. Tuttavia, la storia del film li sorprende in una fase di passaggio, mentre sono entrambi catapultati in una terra ignota, impananti nelle sabbie mobili di esistenze che non corrispondono alle loro aspirazioni. Non a caso, il cortometraggio girato dalla giovane amica (“opera un po’ impressiojista, un po’ espressionista”) che li vede protagonisti s’intitola significativamente Limbo, quasi a sottolineare la loro situazione esistenziale.

Chissà se Dolan conosce il bel Weekend (2011), perché il suo film segue alcune delle traiettorie dell’opera seconda dell’inglese Andrew Haigh che metteva in scena un amore omosessuale, vissuto però pienamente, anche per quanto concerne l’aspetto sessuale, tra due personaggi caratterialmente molto diversi, uno dei quali è in partenza per gli Stati Uniti. L’impressione generale è che Matthias et Maxime segua meccanismi narrativi ampiamente collaudati sia per quanto riguarda lo sviluppo della storia, che non riserva particolari sorprese, sia nell’ambito della regia, che si serve di taluni espedienti formali tutt’altro che nuovi nel cinema di Dolan per infiocchettare la messa in scena: utilizzo di musiche di particolare impatto nelle sequenze di maggior presa emotiva, ricorso ad accelerazioni e ralenti, variazione del formato in momenti determinati.

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Forse consapevole egli stesso del rischio di ripetersi, il regista inserisce questa volta nella narrazione una sorta di coro – il gruppo di amici  – che aiuta ad alleggerire la tensione e a costruire alcune sequenze gustose e divertenti, soprattutto nella prima parte, che è decisamente anche la più riuscita. Gli scambi verbali, solitamente accesi e fin troppo urlati nei film precedenti, sono questa volta rimpiazzati dalla rappresentazione di una giovinezza più spensierata dove alcuni accenti di cameratismo prendono il posto della conflittualità più esasperata, e dove anche le rare esplosioni umorali evitano di tracimare nell’isteria. Questo permette a Dolan, pur nella ripetizione, di trovare più di una soluzione registica convincente che riscatta almeno in parte un immaginario che appare purtroppo sempre più in via di logoramento.

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