L’enigma Gorey

Infilare al dito un anello di fumo o affrontare un rompicapo come Edward St. John Gorey, sono tipi di sport che danno lo stesso frustrante risultato: ritrovarsi con le mani piene di nulla. Eppure nel secondo caso di materia da afferrare ce ne sarebbe in quantità, non fosse altro perché l’illustratore americano ha prodotto un centinaio di libri, moltiplicando con una creatività inesausta un immaginario indefinibile al quale l’etichetta “surreale” sta stretta e quella di “poetico”, “grottesco” o “gotico” non rendono sufficiente merito.

Ai lettori che hanno familiarità con le sue storie astratte, aperte a ogni interpretazione come il bizzarro uccello in sciarpa e sneakers de Un ospite ambiguo (1957), il nome Gorey evoca deliziose atmosfere retrò, ammantate di echi letterari, una sottile ironia e tanto gusto del macabro. Tutte componenti che ne animano i disegni minuziosi dagli sfondi vittoriani ed edoardiani, dove nella penombra di fitti tratteggi vediamo muoversi i suoi personaggi filiformi inquadrati frontalmente da un ideale boccascena teatrale.
A chi non lo conoscesse, basti dire che questo anomalo autore attraversa il linguaggio dell’illustrazione con un bagaglio di sorprese e misteri che rendono il suo lavoro l’equivalente di un baule sigillato ritrovato in soffitta. Origine: sconosciuta, contenuto: ininterpretabile, grado di fascinazione: massimo.

Avulso da qualunque contesto contemporaneo, Edward Gorey è alla pari dei grandi appartati Salinger e Pynchon, una sorta di vaga silhouette la cui vita privata è ordinaria e sfumata, così come è defilata la sua presenza in un mondo fatto di auto-rappresentazione e sovraesposizione mediatica.
Di lui sappiamo che è nato nel 1925 nell’americanissima Chicago, dove non lascia indizi significativi ai suoi biografi, se non l’aver avuto una matrigna ex cantante di cabaret, possibile origine delle tante teatranti in piume di struzzo dei suoi disegni, e una nonna materna disegnatrice, unica ascendenza artistica in una formazione autodidatta, che attribuisce poca importanza ai fugaci studi del ‘43 presso l’Art Institute di Chicago durati appena un semestre.

Questa opaca figura poco chiassosa e amante della privacy, completa la propria carriera scolastica presso una prestigiosa università (Harvard), risulta tra i fondatori di un Poet’s Theatre (esuberanze giovanili) ed entra nelle file della casa editrice Doubleday come illustratore. La prima produzione personale del ’53, ha un titolo programmatico: The unstrung harp (L’arpa muta nella traduzione Adelphi).
Il mondo sfuggente delle sue storie permeate da attese e scirade irrisolte, ambienti fumosi e apparizioni notturne, gentiluomini baffuti, feticistiche ossessioni per parati e pellicce, può entrare in scena.

Abbastanza ricco di humour per far prendere troppo sul serio i propri scenari lugubri, abbastanza cupo per non regalare note di inquietudine al lettore, Gorey costruisce un mondo estetizzante e geometrico, equilibrato e artificioso, come le geniali inquadrature del regista Wes Anderson. Accostabile a pochissimi, tranne forse George Herriman per la stralunata poesia di Krazy Kat e James Thurber per lo spiazzante sconfinare nell’assurdo, come autore Gorey si rifà a una cultura squisitamente british, reinventata con nonsense alla Edward Lear (non a caso ne illustra un paio di libri sul finire dei ’60) o nei climi tinti di giallo dei suoi mistery senza soluzione. A questo si vanno ad aggiungere riferimenti cinematografici, sempre all’insegna dell’anacronismo e della nostalgia, rintracciabili nelle dark ladies che attraversano i suoi palcoscenici con lo sguardo maliardo e bistrato di una Theda Bara o della vampira Musidora, uscita di peso dai serial di Feuillade.
Un gioco di citazioni colto e inventivo in cui il disegnatore si diverte pure a confondere la propria identità dietro pseudonimi nati da anagrammi che ne rimodellano il nome.

Dissimulazione, ritrosia, isolamento, i tratti caratteriali di Gorey rendono ottimale per lui l’intesa col mondo felino e i gatti sono una compagnia nella vita quotidiana (se ne circonda sia nel periodo newyorkese che nella successiva magione di Cape Cod) oltre che un soggetto delle sue gustose invenzioni, vedi Gattegoria, del ’73. L’amore verso gli animali domestici e non, compresi creature meno popolari quanto pipistrelli, insetti e invertebrati, fa sì che alla sua morte avvenuta nel 2000 lasci una fondazione destinata alla loro protezione. Fa sorridere pensare che questo signore dalla lunga candida barba (non troppo diversa da quella dell’amato Edward Lear), un po’ misantropo e dall’identità sessuale assente e avvolta dal fitto mistero, sia tanto caritatevole verso il mondo a quattro zampe, mentre non abbia mai nutrito una particolare empatia con l’infanzia, pur avendo prodotto un cospicuo numero di libri per bambini.

È una dei tanti rebus di Edward Gorey, rimarcato da uno dei suoi popolari alfabeti.
I piccini di Gashlycrumb, (The gashlycrumb Tinies del ’63) è un’ecatombe di morti bianche, tutte assurde e paradossali, in cui l’iniziale del nome della vittima di turno è una delle lettere dell’alfabeto. Cosa aspettarsi d’altro da un potenziale “nonno” di Tim Burton, con cui condivide lo stesso amore per tutto ciò che va dallo strano al mostruoso? Il mistero Edward Gorey, di cui tutto si può raccontare senza alla fine aver detto nulla, non avrà mai una chiave d’accesso a tutti i labirintici segreti che custodisce. Una quota cospicua del suo fascino forse risiede proprio in questo.

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