“Ready Player One” di Steven Spielberg: il cinema è una festa, viviamola insieme
La gente viene su OASIS per tutto quello che si può fare.
Ma ci rimane per tutto quello che si può essere.
Nel 2045, il mondo reale è un luogo impervio e ostile. Gli unici momenti in cui Wade Watts si sente veramente vivo è quando si immerge in OASIS, un intero universo virtuale dove evade la maggior parte dell’umanità per trascorrere le proprie giornate. In OASIS, si può andare ovunque, fare qualsiasi cosa, essere chiunque: gli unici limiti sono la propria immaginazione. OASIS è stato creato dal brillante ed eccentrico James Halliday, che alla sua morte lascia la sua immensa fortuna e il controllo totale di OASIS al vincitore di una competizione in tre round che aveva progettato per trovare un degno erede. Quando Wade vince la prima sfida di una caccia al tesoro che va oltre la realtà, lui ed i suoi amici verranno catapultati in un universo fantastico fatto di scoperte e pericoli per salvare OASIS e il loro mondo [sinossi].
Ci sono cose alle quali, nonostante non siano una novità, fortunatamente non riusciamo ad abituarci. Una di queste è lo straordinario eclettismo del grande Steven Spielberg, autore cinematografico capace di girare in contemporanea due film diversissimi come The Post (mentre scriviamo ancora presente nelle sale italiane) e Ready Player One, nuova incursione nella fantascienza del regista di E.T., Incontri ravvicinati del terzo tipo e La guerra dei mondi (realizzato nel 2005, anno di uscita anche di Munich), di passare con disinvoltura dalla tragedia dell’Olocausto di Schindler’s List ai dinosauri di Jurassic Park (1993), dalla motion capture de Le avventure di Tintin allo splendido e sottostimato War Horse (entrambi del 2011), dal dramma storico de Il ponte delle spie (2015) all’avventura fantastica de Il Grande Gigante Gentile (2016). Pubblicato con straordinario successo negli Stati Uniti nel 2010, il romanzo di Ernest Cline è stato poi adattato liberamente per lo schermo dallo sceneggiatore di blockbuster Zak Penn (autore, tra gli altri, dello script di Last Action Hero di John McTiernan, con cui Ready Player One ha qualche attinenza). Entrambi poi (romanzo e sceneggiatura) sono arrivati sulla scrivania di Spielberg, che pare sia rimasto immediatamente affascinato dall’idea di una storia che mostrasse la contrapposizione di due mondi, uno reale ma deprimente, l’altro vitale e avventuroso ma virtuale.
Ready Player One, 32° lungometraggio del maestro di Cincinnati, è al contempo una splendida cavalcata nel mondo delle icone pop degli anni ’80 ed uno straordinario omaggio che Spielberg fa al cinema di alcuni amici e maestri. Se nel romanzo ad essere citati erano alcune opere dello stesso regista (di cui Cline è grande fan), qui si evita l’autocitazione per lasciare spazio, tra gli altri, all’Orson Welles di Quarto potere e allo Stanley Kubrick di Shining in una sequenza a dir poco magnifica, tra i molti momenti memorabili della pellicola. Spielberg alterna il campionario di oggetti di culto come la DeLorean di Ritorno al futuro dell’amico Robert Zemeckis, la tuta indossata da Michael Jackson in Thriller, la moto di Kaneda in Akira con riferimenti al cinema del passato, primo fra tutti la celebre “Rosabella” del capolavoro wellesiano. Il James Halliday impersonato da Mark Rylance (alla terza collaborazione con Spielberg), con chioma e occhiali da nerd, finisce così per essere quasi un personaggio senza età, al contempo vecchio magnate solitario à la Charles Foster Kane e ragazzino incapace di baciare la ragazza dei suoi sogni, un novello Peter Pan che convive con il suo corpo da bambino.
Figura polisemica, Halliday è immagine dell’artista incapace di vivere la sua vita, il creatore solitario e immalinconito che invita l’umanità a seguirlo nel mondo (probabilmente migliore) da lui creato e del quale è ansioso di svelare le chiavi d’accesso, è immagine dello stesso Spielberg che a 71 anni si ostina a preservare il suo mondo infantile, è l’inventore dell’attuale universo social, un Mark Zuckerberg costruttore di “profili” e avatar ma che, come il protagonista di The Social Network di David Fincher, forse voleva solo conquistare il cuore di una ragazza. Ready Player One è molto di più di un caleidoscopio di visioni iconiche, un videogioco ludico impregnato di nostalgia, un divertissement fine a se stesso il cui scopo è quello di sputare immaginario assorbito e masticato per decenni. Come nella bellissima sequenza iniziale, il film sorvola il futuro per poi riportarci a terra, non per avvertirci sui rischi di una futura, probabile alienazione, ma per spingerci a osservare il punto dove siamo già, il processo probabilmente irreversibile oramai da tempo in atto.
Forse per questa ragione, diversamente dalla fertile ambiguità di cui si nutriva lo struggente A.I. dove il bambino mecha soppiantava nel cuore dello spettatore il figlio “naturale”, quasi ad esorcizzare la paura, in Ready Player One il confine tra “realtà” e mondo “virtuale” viene delimitato in maniera netta rinunciando ad ogni complessità per riportare l’apocalisse nel morbido giaciglio della favola. Tuttavia l’impressione è che il finale del film, pur nella sua celebrazione della bellezza dell’atto creativo come momento ludico collettivo e condiviso, e sebbene ci restituisca delle coordinate chiare (e apparentemente “semplici”) che ci aiutino ad orientarci, con la “chiusura” del mondo virtuale per “due soli giorni” non manca di sottolineare il fenomeno ormai ineludibile della co-esistenza di due “mondi”, tra i quali una “guerra” è sempre sul punto di scatenarsi.
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