Cannes 70: Haneke e Kawase rifanno (male) se stessi

Siamo arrivati al giro di boa per un Concorso che si appresta ad essere ricordato come uno dei più scadenti degli ultimi anni. Ieri sono sbarcati sulla Croisette altri due registi che sono ormai di casa qui a Cannes: il pluridecorato Michael Haneke (un’ampia collezione di premi collaterali e ben due Palme d’oro al suo attivo) e la regista giapponese Naomi Kawase, in Concorso già nel 2014 con lo splendido Still the water e presente nel 2015 nella sezione “Un Certain Regard” con An.

Molto alte erano dunque le aspettative degli addetti ai lavori per entrambi gli autori ma le cose purtroppo non sono andate come ci si aspettava. Il regista austriaco ha presentato con Happy end un altro dei suoi feroci e crudeli ritratti della borghesia europea, della sua meschinità, della sua indifferenza, della sua ignavia. Tuttavia, l’impressione è che stavolta l’attacco e la provocazione avessero le polveri bagnate. Il film, infatti, si presenta come una sorta di summa dell’universo del regista, e lo spettatore che abbia familiarità con il cinema di Haneke non potrà non riconoscere molti dei temi e degli argomenti già esplorati con maggiore pregnanza e potenza in buona parte dei film precedenti. Per fare un esempio, si va dal rimando esplicito, rappresentato dal personaggio del vecchio patriarca interpretato da Jean-Louis Trintignant che, ad un certo punto, racconta alla nipotina l’atto da lui compiuto nell’indimenticabile finale di Amour, l’opera precedente, Palma d’oro nel 2012. Si potrebbe continuare con il discorso di classe (e di razza) già descritto nello splendido Niente da nascondere, con la riflessione sui meccanismi della visione e sulla morte “filmata” che erano al centro dell’agghiacciante Benny’s video, con il tema della crudeltà che investe anche i più giovani e persino i bambini (ancora Benny’s video e Il nastro bianco). Nulla di nuovo né di meglio, purtroppo, rispetto al prestigioso passato del regista che sembra stavolta aver realizzato un film senile e poco ispirato, nonostante un incipit piuttosto buono ed un finale a suo modo sorprendente. Per questa volta, per quanto concerne il palmarès finale, sarebbe meglio saltare un giro.

Una buona accoglienza ha salutato invece la proiezione stampa di Radiance di Naomi Kawase, storia di una giovane ragazza che lavora come descrittrice delle immagini dei film ad un gruppo di non-vedenti e intreccia un rapporto profondo ed empatico con uno di essi, un fotografo destinato a perdere la vista ne giro di pochi mesi. Come al solito ambiziosa nel mettere sul tappeto temi importanti e nel toccare le corde dell’umano, la Kawase confeziona un film che a chi scrive è sembrato più astuto che profondo, alla costante ed affannosa ricerca di una poesia che riesce a trovare solo a tratti, e che non riesce ad amalgamare in maniera compatta i vari piani narrativi ed emotivi entro i quali si muove, lasciando la sensazione di avere assistito ad un’opera incompiuta alla quale non ha sicuramente dato un buon contributo la coppia di attori protagonisti. Purtuttavia, nello sconcerto generale di buona pare dei giornalisti presenti, corrono voci che sia Happy end che Radiance potrebbero dire la loro nel giudizio finale della Giuria presieduta da Pedro Almodovar. Noi ci auguriamo di no e attendiamo qualche sorpresa nei prossimi giorni.

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