“Una solitudine troppo rumorosa”, di Bohumil Hrabal: autopsia di un corpo ancora in vita

Con un verso di Goethe in exergo“Soltanto il sole ha diritto alle sue macchie” – e un incipit paralizzante – “Da trentacinque anni lavoro alla carta vecchia ed è la mia love story” – inizia questo libro che in sé contiene l’esaltazione e la distruzione della letteratura. Una solitudine troppo rumorosa.

Bohumil Hrabal, moravo, nato a Brno (1914-1997) e praghese di adozione, scrittore e reduce da mille mestieri nella sua vita di uomo discreto e riservato, è l’autore di questa storia che compie un autentico miracolo delle possibilità poetiche, riuscendo a coniugare tutta la santificazione e la maledizione in esse contenute. Esaltazione e distruzione dicevamo, perché Hanta, il protagonista di questo racconto, fa un mestiere piuttosto particolare: distrugge i libri, pressandoli in una macchina che diventa presto un ossessivo specchio spirituale, quasi il “correlativo oggettivo” di un uomo destinato a percepirsi appena ma a non vedersi nella sua vita di esecutore. Li distrugge mentre il mondo si prepara a quell’incomprensibile giudizio universale che è stata la seconda guerra mondiale, che assume, nella sua barbarie, i toni di una tragedia interiore assegnata a chiunque vi sia stato coinvolto.

Hanta vive anzitempo la sua guerra e la sua tragedia, perché sdoppia il martirio dei suoi libri, amandoli segretamente ogni volta che ne raccoglie le copie. Schiller, Dante, Shakespeare diventano rifugio e ossessione, salvati dai sequestri e dalle censure, custoditi nel suo appartamento, che pian piano si trasforma in un deposito di riserva, invadendo di passione morbosa e sacrale lo spazio privato del protagonista, che spazio non ha più, perché una volta sacrificato quello materiale, può soltanto difendere quello interiore.

La pressa meccanica, che Hanta battezza strumento aulico della sua vita fatta di pagine e pensieri compressi, fagocita e frantuma, nella sua discesa sistematica, tutto il tormento di chi non sa come dividere il proprio sentimento indivisibile, proprio come la temperie ossimorica di molti scrittori del primo Novecento, che hanno continuato ad alimentare l’arte, considerandola invece morta, ma non potendone fare a meno. Una sorta di custodia necrologica, di continuo negata e contraddetta, svelando le spoglie di un corpo ancora in vita. Portarlo alla fine e con esso finire, oppure iniziarlo a una sorte oscura, che mescola il sangue alla carta e il sollievo al dolore di non potervi rinunciare, di una pressa che non è più mestiere, ma facoltà assoluta, divinità maligna e benigna, come una malattia che non ha ancora rivelato i suoi piani di intrusione mortale.

Praga, la notte, i topi, i dettagli ripiegabili, tutti gli odori del campionario esistenziale tenuto dentro una sacca di cuoio vecchio, conservato e lasciato ad invecchiare di un’impossibile giovinezza tutta da venire. Quella giovinezza che Hanta vede schiacciata nel suo strumento di lavoro, che ai suoi occhi diventa mostro precursore di quella macchina di morte che è la violenza deliberata della guerra, di quella guerra. Hanta cova la sua preoccupazione, il suo insostenibile tormento, quando i libri distrutti si fanno carne umana, vestendo di grazia improvvisa una zingarella che prima diventa sua amica e che, poi, finita anch’essa nei rastrellamenti della polizia militare nazista, disperde il suo ricordo nel dubbio metaforico di Hanta, che quasi crede d’averla macinata assieme ai libri, in quella pressa ormai strumento di tortura spirituale e di incomprensibile repressione.

Hrabal incastra tutto questo nel suo libro spinoso e magnifico che s’impiglia dappertutto. Prosegue e codifica la “legge fisica” di Kafka, per la quale “la poesia è malattia”. Hanta si ammala guarendo la propria storia attraverso il suo stesso male. Fa sponda al suo virus letale, prende il suo spirito incartato dai libri e sepolto dalla polvere, facendone un impeto di dignità poetica confessabile soltanto a se stesso.

Bohumil Hrabal viene anch’egli dalla sua pressa meccanica. Lo nasconde la sua vita a volte “arrangiata”, altre volte passata al setaccio dalle vicende della sua Praga umana e mondiale, capitale non solo di una nazione, ma di un pezzo di Storia, un frammento d’epoca lungo un paio di secoli. Perchè Hrabal afferra tutto, forse anche se stesso, affidandosi ad Hanta e alla sua macchina di distruzione, sperando di invertirne l’inesorabile direzione. È forse questa intenzione a farsi rappresentare dallo struggente e paziente amen che, con estrema sapienza letteraria, l’autore designa parola finale del libro.

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