Intervista a Maudi, pittore che nel “De anima” ha trovato il suo manifesto

Maurizio Di Martino, in arte Maudi (lo pseudonimo si forma da una sorta di crasi del suo nome anagrafico), nasce a Napoli nel 1975. Pittore autodidatta, nel settembre 2015 vince il primo premio sezione pittura con “La Nostra Guerra”, valida per il concorso Napoli, Arte e Rivoluzione.

Ho iniziato a dipingere guardando mio padre. Anche lui dipinge. L’ho seguito sin da bambino e il mio maestro è stato lui, anche se mettermi a fare l’artista è stato andare contro la stessa opinione familiare. Si tratta di un mestiere che non incontra facilmente il consenso di chi vorrebbe per te un lavoro più sicuro. Ho dipinto a lungo senza mai esporre.

Secondo quali regole si muove il pennello di Maudi?

Sono un sonar. Parlo per rimbalzo. Eppure non perdo mai di vista quanto un’immagine sia importante per il pensiero, quanto conti perseguire la possibilità di realizzarla nella maniera più fedele possibile alle proprie intenzioni. Nel De anima Aristotele dice che l’anima non pensa mai senza un’immagine.

Rispetto ai nuovi temi dell’arte, rispetto agli equivoci ai quali a volte si va incontro quando si parla di astrattismo, come agisce Maudi per aggirare questo rischio?

L’arte per me nasce come astratta, almeno nel fondo della mia spiritualità e nel mio pensiero di artista, ma evito di eseguirla secondo determinati canoni. Mi comporto così per umiltà e per buona fede. Non voglio correre il rischio, appunto. Quel rischio di mostrare all’osservatore qualcosa che possa andare incontro a fraintendimenti.

L’esecuzione come sforzo?

L’arte per me è come uno specchio. C’è qualcosa che mi appartiene e che posso vedere guardando davanti a me. Parto dall’astrattismo perché quello è il mio punto di partenza interiore, ma cerco di tradurlo in figurativo, dandogli una forma più elaborata e complessa. Una volta mi hanno detto che la mia pittura è un setaccio dell’inconscio. Forse sono un autore introspettivo, ma non perdo di vista una specie di dovere, quello di realizzare la mia introspezione secondo una forma che non sia ingannevole.

Nell’arte di Maudi c’è anche il meridione? C’è anche Napoli?

Sì. Ho rappresentato la mia città quando ho partecipato al concorso che ho vinto. Era un concorso tematico, e ho scelto di parlare di Napoli immaginando le Quattro giornate attraverso il Vesuvio, un’allegoria della forza popolare, di quella spinta magmatica che parte dal basso.

Qualcosa che forse è presente anche altrove.

Certo, anche nella metafora tentacolare. Nei miei dipinti è ricorrente, perché penso che ci sia una forza che vada oltre quella della ragione, una forza che muove gli eventi, come l’arte stessa. L’arte secondo me nasce dal basso, da dentro, da un’interiorità che ha a che fare con un genere di implosione. Il basso è un concetto spaziale e filosofico. Il basso come base, come spinta, come territorio spirituale. Da lì nasce tutto.

Al di là di ogni statuto estetico, l’arte si avverte preziosa per il fatto di percepirsi tale, oltre ogni significato che si vuole attribuirle. La filosofia e la letteratura se ne sono occupate e continuano a occuparsene. Un concetto tutt’oggi rimasto irrisolto, destinato a restare tale. Se per Benedetto Croce essa è quello che si racchiude in un’aspirazione nel giro di una rappresentazione, ogni artista, forse, avverte questo sistema binario affidato all’istinto e alla ragione. Hanno in comune di sfuggire entrambi al torto. Maudi non vuole il torto.

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