Berlinale 2016: Orso d’oro a Gianfranco Rosi per “Fuocoammare”

Chiamato sul palco a ritirare il premio Alfred Bauer, assegnato al capolavoro A Lullaby to the Sorrowful Mistery (l’opera somma di questa Berlinale) come “film che apre nuove prospettive”Lav Diaz nel suo discorso ha dedicato la vittoria “a tutte le persone che credono ancora che il cinema possa cambiare il mondo”. In questo senso, dopo il verdetto della Giuria, che ha incoronato il bellissimo Fuocoammare di Gianfranco Rosi, opera sulla questione dei migranti a Lampedusa, e conferito l’Orso d’argento all’ottimo Morte a Sarajevo di Danis Tanović, che squaderna la crisi dell’Europa cento anni dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, non si può che sperare che l’auspicio del grande regista filippino possa essere raccolto e fatto fruttare.

Perché, strano a dirsi, persino un premio cinematografico rischia talvolta di essere il modo per lavarsi la coscienza, una foglia di fico posta davanti ad una questione verso la quale l’ignavia del mondo occidentale è sotto gli occhi di tutti. In questo senso, i due film che hanno trionfato in questa 66º Berlinale sono destinati a specchiarsi in qualche modo l’uno nell’altro: da un lato i cadaveri nel Mediterraneo, dall’altro il corpo morto, quasi putrescente, di un’Unione Europea che ha ormai smarrito il senso della sua esistenza. Qualche giorno fa, in un’intervista, il regista ci aveva raccontato, infatti, del nostro “occhio pigro” verso questa immane catastrofe, paragonando la nostra indifferenza all’azione di un sommozzatore che si immerge nel profondo del mare per non sentire le voci (anzi, le urla) che provengono dalla superficie.

Gianfranco Rosi, che ha riportato l’Orso d’oro in Italia quattro anni dopo la vittoria dei fratelli Taviani con Cesare deve morire, era visibilmente emozionato anche perché il suo è un cinema che in Italia non fa ormai quasi più nessuno e che riceve finalmente il suo sacrosanto riconoscimento: ha voluto sul palco tutti quelli che hanno lavorato con lui, primo fra tutti il dottor Bartòlo, eroe dei nostri tempi che, insieme al piccolo protagonista Samuele Pucillo, resta la figura più emblematica, indimenticabile, di questo film, così come il suo racconto sul riconoscimento dei morti è stato forse il brivido più forte di tutta la competizione.

Per quanto concerne gli altri premi, l’Orso d’argento per la regia è stato assegnato, con più di un pizzico di generosità, a Mia Hansen-Løve per il discreto L’avenir, ad avviso di chi scrive il meno bello dei due francesi in Concorso, inferiore all’emozionante Quand on a 17 ans di André Téchiné, rimasto a bocca asciutta. I premi alla migliore interpretazione maschile e femminile sono andati rispettivamente a Majd Mastoura per il buon esordio tunisino Hedi di Mohamed Ben Attia (che ha vinto anche il premio come Migliore Opera Prima) e a Trine Dyrholm per il modesto The Commune di Thomas Vinterberg (nelle sale italiane dal 31 marzo). Infine, premio per la sceneggiatura per United States of Love di Tomasz Wasilewski (uno dei film peggiori del Concorso), giovane regista polacco assistente di Małgorzata Szumowska, la cui presenza in Giuria è l’unica spiegazione plausibile per questo riconoscimento, mentre meritatissimo il premio al contributo artistico per Crosscurrent, affascinante film di viaggio del cinese Yang Chao.

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