La passione di Pasolini secondo il Teatro Grimaldello

Su Nel nome del padre, omaggio teatrale dedicato a Pier Paolo Pasolini curato e rappresentato dalla compagnia del Teatro Grimaldello

“Sono qui a seppellire il realismo italiano

non a farne l’elogio.”

In morte del realismo, Pier Paolo Pasolini

Se le procure hanno archiviato il processo sull’omicidio di Pasolini, il Teatro Grimaldello ha piantato le tende per stabilire un presidio sul luogo del delitto. “Nel nome del padre”, a cura di Antonio Grimaldi, in scena con Anna Rita Vitolo, Cristina Pagliara e Paolo Aguzzi, è un intorno mistico del martirio di Pier Paolo Pasolini. La passione del poeta è tradotta in manifesto politico, in opera civile postuma. La sua fine coincide col mito della distruzione, ripetendo nella realtà storica tanto il tragico epilogo mitologico della grecità – cara a Pasolini – quanto l’altro epilogo, quello investigativo, emblematico e paradossale, delle indagini sulla sua morte, di fatto fuorvianti, lontane dalla verità e probabilmente distanti dalle colpevolezze dei mandanti indirettamente presenti nell’irrisolto concorso di ignoti. Gli attori del Teatro Grimaldello abbracciano la saggezza e la serenità della controriforma letteraria, e, indossando l’abito del francescanesimo laico tipico della stessa letteratura “religiosa” di Pasolini, si presentano al cospetto della sua crocifissione.

Introdotti dal solo tratto didascalico e unico momento di oralità della rappresentazione, nel prologo sentito e panoramico di Alfonso Amendola (ispirato a una “memoria” di Nico Naldini), i corpi dei quattro attori si fondono nell’organismo unico del tragico, battezzato a luogo dove Pasolini, assistito dalla madre, viene condotto per conoscere il suo destino, disperdendo i simboli della notte del 2 novembre all’idroscalo di Ostia in una riproduzione dell’atroce parabola delittuosa. Il dialogo non esiste e la scrittura di scena è praticata da maschere che compongono un insieme teatrale indefinito, che annulla il palcoscenico, confinando il definito scenico nel verbo pronunciato attraverso il silenzio.

Una macchina non vista, superiore, nascosta in un extra ordinem civile e politico, comanda i colpi inferti al Pasolini già scomparso, umiliato nella sua morte violenta e trasmigrato nel labirinto del supplizio spirituale, che, per mano di due emissari mascherati da volti animali, lo sottopongono al tentativo di screditarne il valore umano e letterario, agli occhi di una platea improvvisamente interrogata dalle azioni totalitarie delle due sentinelle che, in fondo, non realizzano il martirio, ma vi assistono monitorandolo, affinché tutto si compia come da ignota prescrizione.

“mi si vuole spelacchiato leone che rugge

contro i servi o contro le astrazioni

della potenza sfruttatrice”

La Guinea, Pier Paolo Pasolini

Una lettura improvvisamente neorealista degli interventi del potere, che non rivela gli ideatori dei suoi disegni, ma provvede all’impiego di un’oscura manovalanza spesso ripagata con la certezza dell’impunità. I volti mascherati dei due carnefici provengono dalla “Fattoria degli animali” di Orwell e dalla narcosi su scala popolare che dopo la morte del poeta, a suo tempo, non seppe fare altro che ripiegare sul giudizio sbrigativo a sfondo sessuale. La mimica attoriale, nella totale assenza orale e dialogica, chiede aiuto al sostegno emotivo di alcuni brani musicali di repertorio, prudentemente all’interno del margine sperimentale che potrebbe entrare in polemica col purismo teatrale, ma confortata da un largo uso nella sperimentazione collettiva.

Gli unici momenti del “parlato” sono rappresentati dall’ascolto della registrazione della voce di Pasolini che recita la poesia La Guinea e dalla registrazione del celebre intervento di Moravia al funerale del poeta. L’unica infrazione concessa al rituale è l’intervento documentale, a conferma che il poeta resta nei dolori di chi lo ha amato, restando invece definitivamente archiviato nelle verbalizzazioni antologiche. Tuttavia, ogni eventuale rischio di cattiva commistione sarebbe scongiurato da quanto lo stesso Pasolini, a proposito del teatro, sostiene all’interno di un suo articolo critico pubblicato su “Il Giorno”, il 1 dicembre del 1968. “Il teatro si sta articolando. La definizione “Il teatro è il teatro” non vale più. Operanti, sono ormai due generi di teatro: il teatro tradizionale e il teatro di avanguardia, che sono, in realtà, due teatri diversi”, laddove, sempre secondo Pasolini, il teatro si esprime secondo la “parola poetica”.

Nel nome del padre si priva del padre, affidando alla madre del poeta tutto il carico luttuoso destinato alla sopportazione della sorte di Pasolini. Una madre Madonna, in piena ispirazione al Vangelo secondo Matteo (opera cinematografica di Pasolini in cui proprio la madre del poeta interpreta la Vergine Maria), condannata a tracciare col dito le lacrime di un’angoscia tradotta su un volto che scongiura patetiche trasfigurazioni.

Il mistero doloroso della madre di Pasolini riesce a non tradire la sua dignità, nell’unica soluzione di resistenza alla perpetua violazione a danno del figlio, fino alla chiara paralisi pietosa che immortala un’istantanea dove madre e figlio restano riuniti in una Pietà di Michelangelo riprodotta nelle profanazioni della modernità. Nel nome del padre vi è un’assenza solo apparente. Se a mancare è soltanto il padre, l’inganno avviene perché il padre è l’unico sopravvissuto. Il padre è in ognuno di noi, afflitto da angosce che non conosce, che non ha ancora guardato in volto, come chi crede di temere fantasmi lungo la strada, senza accorgersi che i più pericolosi se li porta dentro. Nonostante la paternità definita da Cioran come l’inconvenienza non sta nell’essere venuti al mondo, ma nell’avventatezza del vivere. Forse la letteratura di Pasolini ha voluto accorgersi di questo. Il “padre” è il reduce, ma non sa come vivere.

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